Dal governo

Benvenuto al "Dm 71" che riporta al centro la persona. Me restano sei importanti nodi da sciogliere

di Ettore Jorio *

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24 Esclusivo per Sanità24

I "Modelli e standard per lo sviluppo dell’Assistenza territoriale nel Servizio sanitario nazionale" sono in procinto di consacrarsi in un Dpcm pubblicato in G.U. Un seguito meramente pedissequo, quanto all'acronimo utilizzato, del Dm 70 del 2015, che ha approvato il “Regolamento recante definizione degli standard qualitativi, strutturali, tecnologici e quantitativi relativi alla assistenza ospedaliera”. Siamo così arrivati al difficile parto del Dm 71 - durato mesi, con qualche difficoltà ad assumere i pareri del Consiglio di Stato e un dissenso motivato in Conferenza Stato-Regioni (la Campania) - solo per non perdere poco meno di 10 miliardi dal Pnrr, Missione 6, Componente 1.
Il suo contenuto mi genera un grande entusiasmo. Non fosse altro per la nuova determinazione degli standard di assistenza territoriale, che soddisfa una gran parte delle mie aspettative reclamate da anni, in lungo e in largo. Con esso il decisore politico nazionale ha dato il segno di volere invertire la rotta in termini di attenzione assoluta alla sanità territoriale, dopo decenni di trascuratezza o, meglio, di quasi abbandono. Lo fa mettendo, finalmente, al centro del suo interesse la persona umana. La Riforma del 1978 affidava a essa il ruolo di assoluto protagonista, da assistere a partire dalla propria casa.
Dalla scomparsa delle condotte sanitarie (medica, ostetrica e anche veterinaria) e dalla retribuzione della medicina di primo livello garantita a partire dalla mera scelta piuttosto che a servizio reale reso alla persona ci si è abituati a tutto: a subordinazioni psicologiche dell’assistito; a rivendicazioni salariali progressive e continuative dei medici di famiglia, spesso a fronte delle stesse prestazioni, somministrate in modo sempre più distante, anche via web (che nulla a che fare, ovviamente, con la telemedicina!); a utilità fisico-nominalistica degli operatori sanitari accolti con entusiasmo utilitaristico nell’arena dell’esercizio dell’elettorato passivo ovvero a contribuire al concentramento del consenso.
Con tutto questo la squadra dell’assistenza primaria è venuta meno nel giocare la partita della salute del cittadino, efficace, diffusa e uniforme, così come pretesa dalla Costituzione (artt. 32 e 117, comma 2, lett. m) e dalla legge di istituzione del Ssn (833/78).
È iniziato così il periodo, invero esordito bene, della restituzione alla società civile della fiducia espressa nella libera scelta del proprio medico attraverso la percezione delle prestazioni essenziali cosiddette di base, salvo rovinarsi dopo sino a manifestarsi nel suo punto più critico dimostrato nel corso della pandemia.
Vengo al tema specifico. La più importante «invenzione» del legislatore delle riforme della salute, quello del 1978, non vi è dubbio che fu quella di fondare la sua rete assistenziale più attiva sul distretto sanitario (allora) di base. Una sorta di perimetro (allora) infra-uslino oggi infra-aziendale, da riempire di servizi essenziali resi da erogatori di prestazioni altrettanto essenziali (Lep), così come definiti poi dalla Costituzione e "specializzati" in Lea.
Si concepiva così un dinamico sistema assistenziale con il compito di portare la salute a casa del cittadino e di estenderla in prossimità della sua residenza quanto a una superiore istanza da soddisfare sul territorio, sia in termini accertativi che di cure e di pratiche riabilitative.
Dunque, un Distretto sanitario non come un sito fisico, così come invece diventato un vero brutto esempio di assistenza burocratica, ma uno spazio ideale, circoscritto a seconda del preventivamente rilevato e successivamente adeguato fabbisognoepidemiologico espresso dalla popolazione di riferimento. Tutto questo, ovviamente, correttamente rapportato alle condizioni geomorfologiche del territorio, dalla intensità demografica per kmq e dal sistema viario di collegamento, tenuto conto dei servizi di trasporto pubblico locale, di frequente non goduti a buon livello. Così non è stato e si è andata avanti così come tutti hanno patito, soprattutto da coloro i quali abitano le periferie e i siti alto collinari e montani, non potendo fare altrimenti se non fare la conta dei tanti morti che ha determinato, l’aggressione pandemica.
Orbene, un grande benvenuto al Dm 71, pur non condividendo il suo acronimo che sembra essere stata individuato in analogia e (francamente non riconoscibile) continuità con il Dm 70 del 2015. Ciò in quanto quest’ultimo regolava tutt’altra cosa, principalmente quella di rivedere l’organizzazione dell’assistenza ospedaliera. In buona sostanza, il Dm 70 introduceva semplicemente (e non propriamente ben equilibrato per tutto il Paese)un modo diverso di concepire il sistema della spedalità, anche impropriamente per le anzidette zone marginali, senza tuttavia incidere sulla regolazione specifica attraverso l’introduzione di nuove tipologie strutturali.
Diversamente, il Dm 71 istituisce e incide strutturalmente sulla disciplina statale (d.lgs. 502/92) e, di guisa, sul quella organizzativa regionale, rispettivamente, dedicate alla definizione della legge quadro, con i suoi principi fondamentali, e a quella di dettaglio. Fatto sta che il Dm 71, per come adottato, non sembra assolutamente idoneo a "cambiare il mondo". Ciò in quanto, Costituzione alla mano, non è dato a uno strumento regolamentare di modificare e implementare una norma legislativa di primo rango, quale è quella che definisce il distretto sanitario agli artt. 3 quater- sexies. Un aspetto peraltro trascurato nella legislazione organizzativa della maggior parte delle Regioni, dimostratesi ignare per decenni del corretto modo di assicurare l’assistenza sanitaria di prossimità. Il Dm 71 è, quindi, nuova regolamentazione, complementare e integrativa di quella regolazione che istituisce il più importante strumento erogativo di prestazioni sanitarie essenziali di prima istanza: il distretto. È andato avanti tra non facili acquisizioni di pareri preventivi del Consiglio di Stato e una non unanime formazione di Intesa in Conferenza Stato-Regioni, nonostante regolamento che sancisca i "Modelli standard per lo sviluppo dell’assistenza territoriale del Ssn". Il tutto in armonia con la Misura 6, Componente 1, del Pnrr. Uno strumento destinato a cambiare il mondo della assistenza territoriale nazionale, sempre che l’inflazione in atto e la guerra consentano l’esecuzione dei relativi appalti, persino di quelli già in esecuzione.
Le perplessità
Tutte le cose dette suscitano, a chi è attento lettore da tempo delle regole, alcune perplessità, che qui si rappresentano allo scopo di stimolare le necessarie modifiche, sia sullo strumento normativo preteso dalla Costituzione che di merito. La prima. Aver fatto ricorso a una siffatta fonte normativa, ma non legislativa, per sancire un così importante contenuto istitutivo suscita non pochi dubbi, relativamente alla gerarchia delle fonti di diritto. Il Dm 71 è introduttivo nell’ordinamento di strutture erogative fisse, componenti di una nuova rete assistenziale e di un nuovo modello organizzativo, sensibilmente implementativo dell’attività distrettuale. Le strutture di prossimità (case ed ospedali di comunità), quali elementi portanti della nuova metodologia dell’assistenza sociosanitaria alla persona sul territorio e, dunque, implementativi del distretto sanitario, avrebbero dovuto rintracciare infatti la loro istituzione nell’ordinamento in un atto avente valore di legge, tale è il vigente d.lgs. 502/92. Più esattamente, integrando sensibilmente la disciplina dettata dagli artt. 3 quater-sexies. Ciò in quanto, la loro attività, a differenza di come ha fatto il Dm 70 con la fissazione di standard quali-quantitativi dell’assistenza ospedaliera, concretizza e sviluppa quel segmento assistenziale che è tipico del distretto sanitario di base, così come battezzato dalla legge 833/1978, istitutiva del Ssn, tanto da rinnovarne i connotati erogativi e di metodo. In quanto tale, i compiti e le funzioni andrebbero istituzionalizzati legislativamente, quanto a principi fondamentali, e resi funzionanti con legislazione di dettaglio dalla Regione che avrebbe, tra l’altro, l’irrinunciabile compito di poterle disporre secondo il proprio fabbisogno epidemiologico, gli indici di deprivazione caratterizzanti la propria società civile e le difficoltà viarie e orografiche. Al riguardo, bene hanno fatto le Regioni Lombardia e Calabria - la prima a codificarle nella legge n. 96 del 30 novembre 2021, modificativa del T.U. delle leggi regionali in materia di sanità (legge 33/2009), e la seconda con la legge n. 9 del 15 aprile 2022 – a integrare, seppure in assenza di principi fondamentali in tal senso sanciti da leggi dello Stato, insediando nel loro ordinamento salutare regionale, ad integrazione dei distretti sanitari,sia le Case della Comunità (CdC) che gli Ospedali di Comunità (OdC), così come le Centrali Operative Territoriali (Cot).
La seconda. Riguarda, quanto alle strutture, la non menzione - che la lascia immaginare a una sua mancata previsione normativa in tal senso - della obbligatorietà dell’accreditamento istituzionale, che renda idonee le anzidette strutture (CdC e OdC) al complesso utilizzo integrato e multiprofessionale cui le stesse sono destinate, tali da potere divenire finanche espressione di pratiche e attività medicali a pratica invasiva e strumentale. Ciò se – nella dimensione delle CdC nella dimensione hub - dovessero essere le prestazioni diagnostico chimico-cliniche e di immagini rimesse alle UCCP, di cui al decreto c.d. Balduzzi. Al riguardo, attesa l’esigenza – per come sollecitato nella perplessità successiva - di dovere condividere la coesistenza attiva delle sue strutture di comunità, siano esse Case che Ospedali, la loro attività unitaria non può essere sottratta al preventivo rilascio dell’accreditamento istituzionale apposito, tali da renderle espressione certificata delle buona pratica salutare. La terza. Afferisce all’assenza di una qualsivoglia indicazione in ciò che sembra essere una condizione inscindibile e non affatto trascurabile, specie nei punti ove a essere assistiti sono più comuni periferici e separati da una rete viaria non propriamente comoda per non dire impervia. Il riferimento è e deve essere la unitarietà funzionale tra le due strutture, intendendo per tali la Casa e l’Ospedale di Comunità, non ritenendo affatto esaustiva la loro allocazione in siti distanti l’uno dall’altro. Un gap, questo, che scombussolerebbe la vita degli assistiti stanziali, che sarebbero costretti a rintracciare nella prima le attività di primario intervento e nelle seconde quelle infermieristiche di necessità, spesso immediatamente successive. Supporre il contrario, oltre che a determinare un dispendio di energie finanziarie evitabile con la comune economia di scala, da realizzarsi facendo più cose insieme a un minore costo unitario, creerebbe delle notevoli disfunzioni assistenziali, tenuto conto che nel Paese, soprattutto nelle aree del Mezzogiorno, oltre ad avere una rete viaria difficile difettano notevolmente i trasporti pubblici locali. La quarta. Inerisce la difficoltà, condividendo con questo le perplessità mosse dal in proposito dal Presidente della Regione Campania, che si registrerà - sempreché si riescano a realizzare nel breve periodo le strutture (CdC e OdC) e il modello organizzativo di presa in carico del paziente (Cot) - nella disponibilità del personale necessario. Un difficoltà di reperimento, quanto a operatori sanitari, che non è affatto di poco conto, resa difficile anche in termini di facile rintracciabilità nel mercato e di relativa sopportabilità dei costi aggiuntivi, che rimarranno a totale carico delle aziende sanitarie di riferimento. Un problema al quale, Pnrr a parte, va individuata da subito una soluzione, allo scopo di assicurare quell’assistenza territoriale che per essere tale ed efficiente è determinata dalla somma delle strutture e del personale sanitario e non solo. La quinta. Interessa lo spessore dell’attività da erogare alla collettività. Esso riguarda certamente l’area sociosanitaria, in quanto tale garante anche delle prestazioni disciplinate dall’art. 3 septies del vigente d.lgs. 502/1992. Più esattamente, di quelle sanitarie a rilevanza sociale e di quelle sociali a rilevanza sanitaria. Il problema che tuttavia rimane - prescindendo dalla difficoltà che molti servizi sanitari regionali andranno velocemente adeguati in tal senso tant’è che alcuni non hanno mai provveduto a prevederlo ancora a prestazioni integrate – riguarda l’attività socioassistenziale. Una competenza che andrà certamente compresa nel segmento assistenziale di base, e quindi distrettuale, tenuto conto dell’importanza che un tale settore d’intervento riveste, anche alla luce di quanto abbiano inciso negativamente le performance rese da e nei confronti di alcune Rsa, abbandonate a se stesse a lottare contro il Covid. La materia generale dell’ambito dell’assistenza salutare trova un ovvio e ineludibile collegamento con la necessità di mettere insieme le diverse discipline, tanto da sostituire l’obsoleta aggettivazione di sanitaria. Con questo affidare, all’interno del sistema della salute, il ruolo primario alla prevenzione e allo star bene ovvero a recuperarlo mediante una seria riabilitazione. Quanto specificatamente al socioassistenziale occorrerà, oltre che ad essere integrato nel sistema unico erogativo dei Lea (comprensivi oramai dei Liveas), che le Regioni diventino (finalmente) una chiara espressione attiva della propria capacità legislativa, esercitando così la loro competenza esclusiva residuale d’ambito attribuita loro dalla revisione costituzionale del 2001. La sesta. L’ultima, ma di certo non per ragioni di importanza, riguarda la conflittualità regolativa tra quanto disposto dal Dm 71 - nel senso di inserimento nei siti delle CdC tutto quanto ad esse funzionalmente collegate - e la legge 158/2012, istitutiva delle Aft e delle Uccp. Queste ultime intese quali rispettive organizzazioni di erogazione mono-professionale al plurale H12 dei medici di famiglia e strutture erogative H24, anche erogative della specialistica di primo livello. Qui il problema della convivenza è da valutare a 360°, partendo dall’esigenza, peraltro pretesa dall’UE, di trasformare l’attività dei medici di famiglia da esercizio professionale parasubordinato a rapporto di lavoro dipendente. Il tutto con la conseguenza di una sensibile modifica dell’organizzazione esistente, che invero non ha registrato alcun successo realizzativo delle Aft e Uccp. Sul tema, nelle novellate istituzioni assistenziali va evidenziata, a dimostrazione della non soddisfacente attività di prima istanza prodotta sino ad oggi dalla medicina di famiglia, il ruolo prevalente assegnato alle Cot. Le stesse infatti andranno ad assumere un compito squisitamente sussidiario del medico di fiducia di libera scelta. Quello che, ben retribuito ad assistibile con la quota capitaria forfettaria incrementata con gli undici euro pro Aft, avrebbe avuto l’onere di conoscere tutto della propria utenza e delle loro famiglie, in termini anamnestici, e conseguentemente avere cura di avviare ragionevolmente alla bisogna il suo (a quel punto) assistito ai servizi di territorio ovvero di spedalità, e ivi di seguirlo amorevolmente.

* Università della Calabria


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