Dal governo
Come distinguere l'innovazione dal nuovo?
di Luca De Fiore (Associazione Alessandro Liberati – Network italiano Cochrane)
Dovrei buttare quel Tuttocittà che sta in macchina da vent'anni. Ha resistito al navigatore. Sopravvive a Waze. Ci vorrebbe un'automobile senza carta, in linea con quel paperless office di cui parliamo da un sacco di tempo. Per la precisione da quando questa espressione fu usata per la prima volta su Business Week. Era il 1975: 42 anni fa, e siamo ancora sommersi dalla carta.
Cosa ci trattiene dall'accettare senza incertezze l'innovazione? Forse, la nostra àncora è in quello che Clayton M. Christensen definiva nel 1997 il dilemma dell'innovatore: “Doing the right thing is the wrong thing”. Il ritmo con cui le novità vengono proposte è semplicemente troppo elevato per consentirci di scegliere tempestivamente e in modo informato. Come nella storia di quello che perde l'aereo: non sapeva neanche ci fosse, l'aereo, aveva scambiato l'aeroporto per un'autostrada e non sapeva neppure di dover partire.
Altro dilemma: fare la cosa giusta ma al momento sbagliato. È una preoccupazione comprensibile, soprattutto negli anni in cui impera il mantra della rapidità. Come faceva osservare Jill Lepore sul NewYorker qualche anno fa, siamo passati dal progresso illuminista all'evoluzione positivista, dall'innovazione del Secolo breve alla disruption postmoderna. Trascurando un particolare non banale: “disruptive innovation can reliably be seen only after the fact”.
Ancora: “News matters only when it's proved better than what we had before”, scriveva Ezekiel Emanuel sul New York Times cinque anni fa. Ci dimentichiamo spesso che la maggior parte delle volte adottare un'innovazione deve coincidere necessariamente con un parallelo disinvestimento: la in-novation presuppone la ex-novation e se non è così il sistema non diventa più sostenibile.
L'alternativa al cambiamento radicale è la via suggerita da Atul Gawande: il miglioramento incrementale, dei piccoli passi. Strada che può essere percorsa solo andando nel senso contrario verso cui va la sanità di oggi: potenziando le cure primarie. Tornando a considerarle la base del servizio sanitario nazionale, come sostiene il chirurgo statunitense.
È un'opzione diversa da quella proposta da Michael Porter, anche lui docente a Boston ma alla Harvard Business School, durante i lavori dell'OECD Policy Forum che si è appena svolto a Parigi: “We've made incremental changes but we've not touched the fundamental structure of healthcare and delivery”. La grande paura avvertita al Forum non è tanto legata all'invecchiamento della popolazione mondiale ma all'incapacità dei sistemi sanitari di tenere il passo con le esigenze in evoluzione di un'utenza che diventa progressivamente più anziana. Le peculiari fragilità dell'anziano sono soprattutto nelle multimorbilità di cui soffre più del 50 per cento delle persone sopra i 65 anni. Una fragilità simile a quella del sistema che dovrebbe rispondere a questi bisogni di salute ma non riesce a farlo compiutamente per la frammentazione dell'offerta sanitaria in tante discipline diverse e per la difficoltà a garantire una presa in carico olistica della persona malata.
Non adeguatamente governata, cresce la domanda di prestazioni sanitarie anche perché i cittadini partecipano di più e sono più esigenti. Solo se crescesse la health literacy, però, il maggiore coinvolgimento si tradurrebbe in un driver di contenimento della spesa. Allo stato attuale, l'impegno di avvicinare i servizi sanitari ai cittadini si trasforma troppo spesso in un volano che porta a un maggiore consumo di medicina, con il paradossale attrito tra una richiesta di maggiore efficacia delle prestazioni e l'evidenza di crescente inappropriatezza.
L'offerta si adegua alla domanda, aumentano le prestazioni e tutto, o quasi, viene monitorato e registrato. Disponiamo di un volume di dati crescente ma la loro qualità non sempre è affidabile e utile per il decision-making. Numeri che non parlano tra loro, non permettono confronti, non aiutano nella pianificazione. Ciononostante, le performance e gli esiti delle cure sono sempre più spesso resi pubblici anche se la nuova frontiera sono i Patient Reported Outcomes e le Patient Reported Experience Measures: il confine si sposta verso i risultati della ricerca qualitativa, esponendo le “prove” all'azzardo della valutazione soggettiva.
I sistemi sanitari sono preparati a governare il cambiamento? C'è da augurarselo. Ma proprio dall'OECD arrivano segnali poco confortanti: lo Science, Technology and Innovation Outlook 2016 ci dice che la spesa per l'innovazione da parte dei governi è drasticamente diminuita fino in molti casi ad aver toccato il fondo arrivando alla “spesa zero”. In altre parole, la risposta alla crisi economica è nella contrazione degli investimenti o nel demandarli esclusivamente alle imprese. Nonostante sia del tutto evidente come il cambiamento auspicato dall'industria non sia necessariamente quello utile al servizio sanitario.
Attenzione alla persona, al valore, alla partecipazione, ai dati: serve tornare a confrontarsi in modo aperto sulle opportunità che le novità più recenti possono promettere al sistema salute. Il confronto presuppone il dialogo e la componente essenziale è l'ascolto: ma qualcuno si preoccupa del punto di vista dei medici, degli infermieri, dei farmacisti, dei dirigenti che lavorano nel servizio sanitario? Se le istituzioni rinunciano a raccogliere le indicazioni che giungono dalle persone e dalle reti che, di fatto, costituiscono il tessuto del SSN rischiano di determinare fratture che difficilmente potranno essere ricomposte. Cosa ne pensano i clinici dei percorsi di diagnosi e cura individualizzati o della medicina di precisione? Come vedono gli epidemiologi una riconsiderazione della evidence-based medicine così che a essere tenute in maggior conto rispetto alle evidenze della ricerca siano le preferenze dei pazienti? Da parte dei dirigenti sanitari c'è consapevolezza dell'utilità del maggiore coinvolgimento dei cittadini nelle decisioni che riguardano la ricerca e l'assistenza? È possibile o auspicabile un uso “sanitario” dei dati generati in grandi quantità e spontaneamente nel corso della vita quotidiana?
Per capire dov'è l'innovazione e dove invece si nascondono illusione o spreco è importante approfondire e discutere. In questo senso, l'esperienza della Regione Lazio e del progetto Forward (www.forward.recentiprogressi.it) è originale perché ha proprio nell'opinion mining e nell'analisi del web sentiment la propria componente fondamentale. Avviato all'inizio del 2016, il programma ha promosso quattro survey che hanno coinvolto 6.500 tra clinici, dirigenti, farmacisti e epidemiologi: da queste indagini è scaturito un quadro complesso, problematico, per molti aspetti critico. Per una prima sintesi e per definire le prossime tappe del progetto, il Dipartimento di Epidemiologia del servizio sanitario della Regione ha organizzato una prima giornata di convegno che si terrà a Roma il 26 gennaio, con la partecipazione di relatori di grande competenza, italiani, inglesi e statunitensi (http://forward.recentiprogressi.it/4words-le-parole-dell-innovazione-in-sanita/ ).
L'obiettivo non è quello di arrivare a dei punti fermi, impossibili da immaginare in una situazione in costante divenire. Semmai, l'aspirazione è quella di trovare un'intesa tra i molti stakeholder della sanità, cercare un accordo sulle regole del gioco alla base delle quali dovrebbe essere il consenso sulla necessità di un metodo rigoroso che permetta una continua e attenta valutazione dei processi organizzativi e delle tecnologie utilizzate o candidate a essere adottate. In anni in cui le nostre identità si precisano quasi esclusivamente attraverso la contrapposizione spesso pregiudiziale a quelle degli altri, scegliere il dialogo con chi la pensa diversamente da noi diventa – addirittura – un atto di coraggio.
Quasi come decidersi a buttare il Tuttocittà. E, già che ci sono, butto anche quei volumi delle Pagine gialle che da sei mesi sono nell'ingresso del palazzo dove abito.
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