Dal governo
L’agenda per la crescita e gli errori da evitare
di Alberto Orioli
Si parte da una certezza che disegna una priorità: il 2016 per ora ha incamerato solo una crescita dello 0,6%. La prossima legge di stabilità non può non partire da qui. E lo spirito di Ventotene, se c'è, dovrà servire a concentrare le risorse su programmi e progetti vitali per spingere la ripresa. Senza divagazioni demagogiche (riedizioni degli 80 euro), senza deragliamenti per gli Enti locali, senza inutili “mance” extra al pubblico impiego o a chissà quali altre porzioni di elettorato. Solo aumentando in modo deciso il Pil torneranno “normali” anche i famigerati rapporti debito-Pil e deficit-Pil.
La politica del denominatore, una volta di più, è l'unica da perseguire. Con velocità e obiettivi mirati per favorire la digitalizzazione dell'economia, lo sviluppo delle infrastrutture strategiche e la conversione delle produzioni verso l'eco-sostenibilità.
La produttività è la leva che manca all'economia da vent'anni, rilanciarla significa cambiare faccia all'Italia: se si comincia puntando risorse importanti per incentivare i bonus aziendali può essere un passo importante. L'idea di raddoppiare la platea dei possibili fruitori dell'incentivo che già oggi esiste è un buon inizio: spostare il limite di salario mensile lordo da 2.500 a 4mila euro e quello annuo da 50 a 80mila euro significa coinvolgere quadri e dirigenti non apicali. Se il progetto, ancora allo studio del Governo, prenderà forma si tradurrà in una intelligente opera di allargamento, a un'ampia parte del mondo del lavoro, della responsabilità verso l'obiettivo della ripartenza del Paese. Costerebbe 370 milioni di euro, non certo una somma lunare per il bilancio pubblico.
Gli investimenti devono essere il cuore dell'operazione-rilancio: le 10 grandi opere che il Governo intende accelerare - dai cantieri del Brennero, al Terzo Valico, dalla terza corsia della A4 Venezia-Trieste all'Alta velocità Napoli-Bari solo per citare le principali in grado di mobilitare lavori per 4 miliardi - sono una prima risposta. Usa risorse già previste e accelera i tempi. Anas e Rfi dovranno fare la loro parte.
Sarebbero necessari anche i piani di riqualificazione urbana e di rilancio delle città, ma mancano, colpevolmente, gli investimenti degli enti locali: i Comuni, pur senza più il fastidioso vincolo del patto di stabilità interno, hanno diminuito del 5% gli stanziamenti per lo sviluppo nei primi sei mesi del 2016. La spesa mancata copre ancora una larga quota dei costi da sottogoverno. Le Regioni, vero cuore dello sperpero dovuto a un federalismo dissennato e di rapina, hanno disavanzi per 33 miliardi. Dovrebbero anche essere il vettore dei progetti da presentare all'Unione europea per i finanziamenti; restano solo un centro di potere inefficiente, clientelare e balbettante. Un danno ulteriore se l'Europa, come annunciato sempre ieri a Ventotene, intende aumentare il potenziale del Piano Juncker, del resto finora alquanto incolore.
Il mondo delle imprese private, quelle che stanno sul mercato e non puntano su prebende “politiche” (e sono la stragrande maggioranza), ha investito molto, e in condizioni difficilissime, per sopravvivere a una crisi feroce. E ha contribuito a far crescere lo standard tecnologico e innovativo dell'intero Paese.
L'operazione Industria 4.0 che ora il Governo intende finanziare va nella direzione giusta di incentivare chi scommette su una dimensione competitiva moderna e globale. Aumentare il super-ammortamento al 200% per beni funzionali alla trasformazione digitale dell'impresa significa guardare a un'Italia del futuro che è alla portata della nostra voglia di fare impresa nel mondo. Costerà 700 milioni nel 2017 che si dovrebbero aggiungere ai 800 che è auspicabile il Governo voglia impegnare per la proroga dei super-ammortamenti al 140% già previsti oggi per gli investimenti in beni strumentali, senza i quali anche la scarsa crescita del 2016 sarebbe stata nulla.
Naturalmente per ritrovare quella fiducia che ancora manca vanno rispettate le promesse fatte: la riforma della Pa, ad esempio, che ancora sconta resistenze nell'applicazione dei decreti del pur efficace piano Madia. Va mantenuta la riduzione dell'Ires al 24% e bloccato l'aumento dell'Iva previsto dalle clausole di salvaguardia. È decisiva la proroga della decontribuzione per i nuovi assunti che tanta parte ha avuto, assieme alle nuove regole del jobs act, nel migliorare la situazione dell'occupazione e del mercato del lavoro. Si stima che costerà fino a 800 milioni. Va potenziato il bonus ricerca, agganciando il credito d'imposta al volume dell'investimento e non solo alla sua parte incrementale; così come va potenziato così come va potenziato il piano fiscale di aiuti alla crescita economica (Ace).
Già questo menù scarno, che naturalmente va arricchito con altre misure, come quelle sugli investimenti in cultura che proprio il vertice di Ventotene ha annunciato di voler escludere dal calcolo del deficit, avrà bisogno di un po' meno di 5 miliardi solo per il 2017 (senza calcolare l'impatto dell'Iva).
Non è certo una cifra monstre come quella che il Governo decise di stanziare - 10 miliardi - con la scelta degli 80 euro. L'Italia ha ottenuto per il 2016 lo 0,75% del Pil, 14 miliardi. Ora, dati i rovesci della congiuntura, Renzi e Padoan devono convincere la Commissione che il target del deficit va spostato dall'1,4% al 2,2-2,3%, che si tradurrebbe in un “abbuono” tra gli 8 e i 10 miliardi. Che, aggiunti, ai risparmi attesi dalle operazioni di spending review (se finalmente si metteranno in pratica a partire dal sacrosanto piano per il taglio delle società partecipate degli enti locali) potrebbero mobilitare risorse per altri 6-7 miliardi.
Lo spazio per il finanziamento quindi è tutto in questa flessibilità di bilancio che, tra l'altro, è tempo di ripensare su scala pluriennale (perché è sul medio periodo che gli investimenti più seri e duraturi dispiegano i loro effetti). Se l'Italia saprà produrre un piano in pochi punti e ben orientato alla leva della crescita, Bruxelles non potrà eccepire nulla. Chi volesse contestare la sostenibilità del debito italiano non potrebbe non considerare che l'Italia vanta (con pochi emuli) un virtuoso avanzo primario in crescita all'1,7% e ha ridotto al minimo storico il costo medio della raccolta del debito sovrano allo 0,57 per cento.
A Ventotene i leader hanno tutti ribadito che la crescita è la strada da percorre per dare un segnale di svolta verso una maggiore attenzione ai cittadini europei, al loro benessere, al loro sviluppo, cuore primo dell'utopia dei Padri Fondatori che immaginavano un'Europa inclusiva, solidale e moderna. Dopo lo schiaffo di Brexit l'Europa deve far dimenticare di essere stata la “matrigna” che ha alimentato i populismi e il suo stesso “cupio dissolvi”. Se però tornerà solo arcigna custode dell'assurda ortodossia dell'austerity per l'austerity, il summit di Ventotene sarà stato solo un giro in nave di mezza estate.
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