Dal governo
Stop alle disparità sul dolore
di Guido Fanelli (professore ordinario di Anestesia, Rianimazione e Terapia del dolore Dipartimento di Medicina e chirurgiaUniversità degli studi di Parma)
Cosa c’è di peggio di una diseguaglianza nel trattamento del dolore, oncologico e benigno, tra un cittadino e l’altro? È qualcosa che va contro la nostra Costituzione, che contrasta apertamente con una Legge di Stato (Legge 38/2010) e soprattutto contro ogni principio sociale e civile.
In Italia purtroppo questo accade quotidianamente. Il trattamento dei pazienti con dolore è diventato una sorta di roulette russa sulla pelle dei cittadini: alcune Regioni possono garantire l’accesso a determinati farmaci e altre no. In alcune Regioni c’è un Centro Hub di Terapia del dolore riconosciuto dalla Regione e in altre no. E non si capisce secondo quale criterio.
Sono solo alcuni dei tanti, tantissimi esempi di “disparities” - di disuguaglianze tanto ingiuste quanto paradossali - di cui abbiamo parlato alla Stazione Leopolda nel corso dell’ultima edizione di «Impact proactive», l’evento che ormai da sei anni si fa garante della corretta applicazione della Legge 38. Una Legge che ho avuto l’opportunità di condividere fin dalla progettazione: una vera e propria avventura, raccontata nel libro-intervista La legge del dolore, un “diario di bordo” delle innumerevoli difficoltà che ho affrontato insieme agli altri componenti della Commissione nazionale del Ministero della Salute per portare alla luce quella che considero una delle pagine di civiltà più belle degli ultimi anni.
Una Legge che altri paesi ci invidiano, e che è talmente avanti, che a distanza di sei anni la sua applicazione è ancora deficitaria e difforme su tutto il territorio italiano. Di questo si è parlato a Firenze, assieme a rappresentati istituzionali come la Senatrice Emilia De Biasi, presidente della Commissione Igiene e Sanità al Senato, e il Senatore Andrea Mandelli, presidente della Federazione degli Ordini dei Farmacisti Italiani, e a esperti di terapia del dolore, oncologi, medici di medicina generale, associazioni dei cittadini.
Abbiamo parlato di un Paese schizofrenico, con 21 sistemi sanitari autonomi che non comunicano tra loro, e in cui, come ha ricordato Luciano Frattini «due cittadini con dolore separati dal Po sono trattati in maniera totalmente differente: se sei nato in Lombardia puoi essere curato con le terapie e i device più appropriati, e con i farmaci oppioidi di ultima generazione, ma se sei nato sulla sponda emiliana (a soli 50 metri di distanza!) non è detto che tu abbia disposizione le stesse terapie, gli stessi device e le stesse tecnologie perché non sono inseriti nel Prontuario Terapeutico Ospedaliero». Assurdo. Ma vero.
Come se ne esce? Da questo summit sono emerse diverse proposte: non solo da parte degli specialisti, ma anche dei Medici di medicina generale e dei farmacisti, dei rappresentanti delle Istituzioni e delle associazioni dei cittadini. Anzitutto, come stabilisce il Titolo V della Costituzione, le Regioni devono dialogare tra loro, e iniziare a collaborare realmente. Dobbiamo anche creare reti sul territorio, potenziando il ruolo dei medici di famiglia e incentivando la collaborazione con il personale sanitario. E poi, investire di più sulla formazione: l’Università di Parma ad esempio, che io rappresento in quanto professore ordinario di Anestesia, Rianimazione e Terapia del Dolore del Dipartimento di Medicina e Chirurgia, sta dando vita a un vero e proprio polo di aggregazione nazionale e internazionale: proprio in questi giorni è stato inaugurato CorporaTech, Centro di alta formazione e ricerca, all’interno del quale saranno realizzati percorsi formativi unici con l’utilizzo di sistemi di Live surgery, tavoli interattivi, aule multimediali, simulatori e cadaver lab; non solo fornirà formazione ai massimi livelli alle diverse figure professionali che si occupano di terapia del dolore, ma sarà un motore per la ricerca scientifica e industriale, in grado di attrarre fondi per la ricerca. È un progetto ambizioso, ma non basta: dobbiamo investire sulla formazione a livello nazionale, e avere tutto il supporto necessario per poterlo fare.
A questi temi si collega strettamente un’altra disparità di cui abbiamo discusso lungamente nel corso di Impact proactive, quella legata all’utilizzo dei farmaci oppiacei. Su cui in Italia ci sono poche idee, ma confuse. Qualcuno tira in ballo il caso degli Stati Uniti, con più di 16mila decessi causati da overdose; ma forse se si citano questi dati bisognerebbe ricordare che negli Usa il consumo medio pro-capite di questi farmaci è pari a 800 mg di equivalenti in morfina, e di solo 2 mg in Italia, e che Canada e Stati Uniti da soli, con il 17% della popolazione mondiale, hanno il 92% del consumo globale di oppioidi e derivati della morfina.
Oltretutto, come emerge da uno studio recentemente pubblicato sulla European Review for Medical and Pharmacological Sciences, i farmaci oppioidi hanno un rischio di dipendenza molto basso anche nei pazienti con episodi di dipendenza, del 3,3%, che scende addirittura allo 0,2% in chi non ha un passato di dipendenze.
Stiamo quindi parlando di un falso problema: i dati più recenti presentati da Sergio Liberatore nel corso di Impact proactive ci dicono non solo che l’Italia è l’ultimo tra i cinque paesi top europei (Inghilterra, Spagna, Francia e Germania) per consumo di oppioidi, ma anche che è il terzo Paese invece per utilizzo di Fans, che come sappiamo presentano molti e gravi effetti collaterali.
La questione va quindi ribaltata: l’utilizzo dei farmaci oppiacei deve crescere in maniera appropriata e regolamentata; per motivi culturali e legislativi non corriamo gli stessi rischi degli Stati Uniti.
Vorrei poi chiudere il discorso sulle disparità con una piccola riflessione. Il problema è mondiale: tre paesi su quattro non hanno accesso alla terapia del dolore. È per questo che quest’anno abbiamo organizzato, con tanti altri colleghi impegnati in prima linea contro il dolore, una doppia spedizione con due delegazioni che si sono presentate contemporaneamente a New York, alle Nazioni Unite, e a Roma presso il Santo Padre, per presentare un nuovo “Giuramento di Ippocrate”.
Si tratta di un decalogo con cui la comunità scientifica ribadisce il suo impegno a prendersi cura della sofferenza che deriva dal dolore, evitando tutte le diseguaglianze e curando chiunque senza distinzione di età, genere, etnia e religione.
Ogni nostra decisione terapeutica deve basarsi sul rispetto della volontà della persona e nella difesa della sua dignità. Questo lo dobbiamo anzitutto ai pazienti, ma anche a noi stessi: vogliamo riscoprire l’orgoglio di essere medici.
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