Dal governo
Riforma costituzionale: governance sul bilancino tra equità geografica e autonomia clinica
di Sabina Nuti e Federico Viola (Laboratorio Management e sanitàScuola Superiore Sant’Anna di Pisa)
È stato approvato in via definitiva dalla Camera la Riforma costituzionale del bicameralismo perfetto e del Titolo V, dopo che il Senato ha approvato il provvedimento in seconda lettura a gennaio.
L’intera riforma verrà poi sottoposta a referendum confermativo nell’autunno di quest’anno ma è senz’altro opportuno iniziare ad avanzare qualche considerazione sulle ricadute che la riforma potrà avere, in riferimento specifico all’ambito sanitario.
Come è noto, la riforma del Titolo V della Costituzione prevede infatti la modifica dell’articolo 117, che disciplina il riparto di competenze tra Stato e Regioni, definendo i rispettivi ambiti di potestà legislativa.
Gli elementi di interesse per la sanità sono almeno due. In primis, viene eliminato il cosiddetto istituto della “legislazione concorrente”: la riforma prevede che spetti allo Stato non solo la «determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale», ma anche le «disposizioni generali e comuni per la tutela della salute, per le politiche sociali e per la sicurezza alimentare». Spetta alle Regioni la potestà legislativa in materia di programmazione e organizzazione dei servizi sanitari e sociali.
In seconda battuta, la Riforma prevede la cosiddetta “clausola di supremazia”, per la quale «su proposta del Governo, la legge dello Stato può intervenire in materie non riservate alla legislazione esclusiva quando lo richieda la tutela dell’unità giuridica o economica della Repubblica, ovvero la tutela dell’interesse nazionale».
La modifica del disposto costituzionale getta senza dubbio le basi per una possibile ridefinizione del bilanciamento delle competenze tra Stato e Regioni. Quale sarà l’effettivo impatto della riforma è difficile dire e dipenderà senz’altro dalla dialettica tra legislatore nazionale, legislatore regionale e giurisprudenza costituzionale.
Chi si occupa di sanità non può tuttavia non aver colto - nel corso almeno dell’ultimo anno - una progressiva spinta da parte del governo centrale verso l’avocazione di talune prerogative prima espressamente demandate alle Regioni. Gli atti normativi recenti più rilevanti in tal senso sono senza dubbio rappresentati dal decreto ministeriale 70/2015, che disciplina in modo puntuale quali debbano essere gli standard dell’assistenza ospedaliera, e la legge di Stabilità 2016, che - ai commi 524 e seguenti - definisce stringenti criteri sia economico-finanziari, sia di qualità clinica cui le singole Aziende sanitarie regionali sono chiamate a conformarsi.
In questa temperie incerta, sarebbe incauto prendere aprioristicamente posizione a favore della spinta centralista o al contrario di quella regionalista; certo pare poco credibile pensare di governare l’attività dei professionisti clinici attraverso dettami dall’alto, che mal si combinano con l’autonomia professionale dei medici, cosi come definire le modalità con cui allocare le risorse a livello locale garantendo da un lato la massima prossimità all’utente e dall’altro gli standard di qualità e appropriatezza.
La recente esperienza del cosiddetto “Decreto appropriatezza”, che mirava a controllare direttamente l’attività dei medici prescrittori, attraverso un meccanismo sanzionatorio, insegna che in sanità l’approccio di tipo impositivo - che non preveda a monte un coinvolgimento dei destinatari e un sistematico processo di condivisione - è destinato quasi inevitabilmente a naufragare, intaccando la credibilità stessa del decisore politico.
D’altro canto, l’attuale frammentazione dell’offerta sanitaria in Italia chiama a un improcrastinabile intervento del livello centrale, che assolva alla sua funzione costituzionale di garantire che i Livelli essenziali di assistenza siano uniformi e omogenei sul territorio nazionale.
L’impressione è quella di trovarsi in un vicolo cieco: la questione dell’equità geografica non può che essere affrontata dal decisore nazionale ma l’intervento diretto da parte di questo nell’attività dei clinici pare inevitabilmente destinata a risolversi in un fallimento così come l’imposizione di standard di produttività che non tengano conto delle caratteristiche del territorio.
Nessuna via d’uscita, dunque? Non è detto.
Una possibile soluzione presuppone che si rinunci alle ricette semplicistiche dettate dall’abbaglio dirigista e si riconosca che in taluni ambiti - tra cui la sanità - la scelta ultima dell’operatore sanitario, che è responsabile con le sue scelte prescrittive della maggior parte della spesa sanitaria, è il risultato di più livelli di governance: deontologia professionale, società scientifiche, programmazione aziendale, regionale, nazionale. Nella misura in cui il livello nazionale non può guidare direttamente le scelte del professionista, ha altresì la possibilità e la responsabilità di fornire a questi - direttamente o tramite i livelli di governo sottostanti - tutti gli strumenti affinché il clinico possa scegliere per il meglio a confronto con gli altri portatori di interesse del sistema sanitario ossia il management, i cittadini stessi, i policy makers locali. Il ventaglio di opportunità offerte dalla clinical governance è ampio, ma senza dubbio spetta in primo luogo allo Stato, ma anche alle Regioni, offrire agli attori del sistema sanitario le informazioni affinché questi possano scegliere per il meglio, adottando sistemi di “accountability” trasparenti e chiari, utili ad attivare processi di responsabilizzazione a tutti i livelli.
Per migliorare la qualità dei servizi sanitari, garantire la sostenibilità e ridurre la variabilità evitabile è infatti assai più efficace adottare meccanismi gestionali che valorizzino il merito, la capacità di miglioramento e la grande professionalità di cui in nostro sistema sanitario è dotato.
Questo è fattibile nella misura in cui si adottano meccanismi di valutazione della performance trasparenti e integrati con la programmazione, condivisi con i professionisti, in cui si riesca a superare l’autoreferenzialità con il benchmarking sistematico e ad agire sulla leva della reputazione e della responsabilità che rimane il bene più prezioso per tutti i soggetti che operano in questo sistema.
Nella misura in cui il livello centrale saprà ridefinire il suo ruolo e adottare un approccio capace non di sostituire ma di supportare i processi decisionali locali e individuali, potremo finalmente superare il dibattito tra regionalisti e centralisti e guardare con più serenità il processo di riforma.
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