Aziende e regioni
Performance manageriali del Ssn, nel report Agenas il crepuscolo delle Aou e un pessimo Sud. Ma ora serve un colpo di reni per formare medici di pregio
di Ettore Jorio
24 Esclusivo per Sanità24
L’unità statistica e flussi informativi sanitari dell’Agenas rappresenta un gioiello di funzionalità per l’analisi ricognitiva delle condizioni esistenziali del Servizio sanitario nazionale, rendicontate per somma delle aziende sanitarie assunte per singoli valori quali-quantitativi prodotti. In buona sostanza, l’Uosd svolge un ruolo tecnico di fondamentale importanza per conoscere, in progressiva simultaneità, lo stato di salute imprenditoriale delle aziende sanitarie del Paese, distinte in territoriali e ospedaliere, componenti i diversi sistemi sanitari regionali e provinciali. Assume in modo coordinato e continuativo i flussi informativi sociosanitari e li traduce in cruscotti informativi anche georeferenziati. Raccoglie le informazioni utili per la valutazione dei fabbisogni epidemiologici, analizzando lo stato dell’offerta dei Lea. E ancora. Contabilizza con tempestività la mobilità interregionale e finanche infra-aziendale. Con tutto questo, stima l’effetto delle politiche volte a migliorare le liste di attesa, rendicontando l’andamento dell’Alpi.
Il recente Report pubblicato dall’Agenas sulla ’Valutazione della performance delle aziende sanitarie pubbliche, ospedaliere e territoriali’ costituisce l’esempio di una buona pratica di monitoraggio, di rilievi e finanche di progetto - concluso con il supporto dell’Uoc Gestione economica del Ssn, dell’Uosd Statistica e Flussi informativi Sanitari e dell’Uoc Ufficio Formazione/Ecm – per cristallizzare una concreta visione delle condizioni di partenza del sistema della salute nazionale. Non solo. Per predisporre una programmazione che porti il Ssn a riprendere la strada dell’efficienza, dell’efficacia, dell’economicità e dell’utilità (si veda qui il puntale articolo di Barbara Gobbi pubblicato il 28 novembre scorso ).
Insomma, un lavoro utile a costituire il punto di partenza pubblico, accuratamente comparato, che mette luce nel buio esistente riuscendo a essere funzionale a dare gas alle politiche regionali sino a ora dagli effetti negativamente asimmetrici. Ciò senza che ci fosse una legge che ne consentisse la tanto detuperata autonomia legislativa differenziata ex art. 116, comma 3, della Costituzione.
L’iniziativa Agenas, complicata a leggersi nei particolari, rileva grandi difetti organizzativi e di risultato. Dimostra una supremazia efficientista di alcune aree del Paese e, per alcuni versi, una sostanziale perdita di primato (ove vi fosse mai stato) delle aziende ospedaliere universitarie, che - a differenza di quelle di Padova, di Tor Vergata e della Sant’Andrea di Roma - non guadagnano alcun podio, anche rispetto ad Ao di provincia del tipo quella Santa Croce e Carle di Cuneo.
Dal macro dato emerge che circa il 30% dei presidi, territoriali e ospedalieri, del sistema della salute è davvero persino al di sotto dei livelli minimi, tanto da non garantire i Lea alla nazione regionale di riferimento. Ma se queste piangono, non sono affatto tantissime le regioni a potere sorridere, tanto è alta l’evasione dall’applicazione del Dm/77 istitutivo delle case di comunità, gli ospedali di comunità e le centrali operative territoriali, ovunque evanescenti.
Una bella figura la fanno, comparando i dati del Report Agenas con la realtà vissuta, gli Irccs, sia pubblici che privati, da sempre a godere di governance di più alto profilo e livello di quelle solitamente impegnate nelle aziende sanitarie. Una pessima figura, la solita, la fa il Ssn impegnato nel Mezzogiorno, abituato a collezionare pagelle caratterizzate da quasi tutti due: in sostenibilità dei bilanci, in qualità erogativa, in capacità di attenuare la mobilità passiva, in recettività e in completezza del personale, ovviamente attratto dalle sirene dell’altrove.
Ed è proprio qui, sull’argomento del personale che andrebbero impegnate tutte le strutture dell’Agenas. Magari anche nella formulazione di disegni di legge strumentali a generare un apparato senza il quale non si assicurerà al sistema la “mano d’opera medica” pregiata che le occorre per riprendere a funzionare al meglio e impedire che peggiori, con i bravi medici prossimi ad andare in pensione.
Il tema infatti non è - in assenza di giovani medici subentranti ovvero di una loro acquisita esperienza tale da superare i gap dei neofiti riscontrabili anche nella presenza degli operatori extraeuropei – solo quello di trovare camici bianchi e completi azzurri disponibili ma di metterli in condizione di essere più bravi di quelli destinati a essere sostituiti.
Al riguardo, si commettono due errori di ipotesi in assenza di una seria finalizzazione delle discipline speciali. Non è infatti utile, se non per superare un vulnus immediato, l’elevazione del limite di età, neppure se disposto ad libitum, senza che si diano ai medici più ricchi di elevata esperienza, acquisita specie nelle branche chirurgiche, funzioni formative. Magari incentivati da contratti quadriennali di scopo, con retribuzione agevolata fiscalmente, indispensabili per assumere lo scettro dei più bravi, che vanno in quiescenza, in una età appena superiore ai quarant’anni.
Una logica, questa, da leggere quale utile alternativa a consegnare oggi importanti responsabilità ospedaliere ad abili “bisturi” quasi pronti ad andare in pensione. Quattrini e occasioni buttate al vento.
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