Aziende e regioni

Anziani in Rsa, quale mix di personale (che manca) per i 360mila ospiti delle residenze

di Claudio Testuzza

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24 Esclusivo per Sanità24

Il team sanitario e assistenziale delle Rsa è davvero variegato per rispondere a ogni situazione di bisogno. Le disposizioni legislative attuali prevedono che le Rsa devono essere in possesso di personale con diverse figure professionali. Almeno un medico specialista in rapporto alla verificata tipologia dell’utenza (geriatra, psichiatra, fisiatra o altro specialista), con presenza di almeno quattro ore giornaliere e con responsabilità dell’assistenza sanitaria e delle condizioni psico-fisiche degli ospiti. Un infermiere con diploma conseguito presso una scuola diretta a fini speciali per la dirigenza infermieristica o, in mancanza caposala o assistente sanitario visitatore, con la responsabilità della direzione organizzativa ed alberghiera. Inoltre sono necessari infermieri professionali in numero variabile in relazione al livello assistenziale della Rsa assicurando, comunque, la presenza di un infermiere per ciascun turno di servizio, e dei terapisti della riabilitazione in numero variabile, in relazione al livello assistenziale della Rsa. Necessitano, anche, operatori tecnici dell’assistenza o, in mancanza, figure similari, in numero variabile, terapisti occupazionali o, in mancanza, educatori professionali di comunità, in numero variabile, e un dietista. Nelle Rsa devono essere assicurate, altresì, prestazioni da parte di psicologi e assistenti sociali per un numero di ore settimanali correlato alle esigenze degli ospiti e al livello assistenziale della Rsa. A uno degli assistenti sociali sarà affidato anche il coordinamento delle attività che concorrono all’attuazione dei progetti terapeutici.
Detto personale, per le Rsa pubbliche e private convenzionate, è messo a disposizione dai Comuni o dalla Asl competente per territorio, che utilizza, a tal fine, il personale operante presso i competenti servizi. Le Rsa devono essere dotate, inoltre di personale amministrativo nonché di personale da adibire ai servizi generali in rapporto al numero degli ospiti e al sistema organizzativo della struttura. La dotazione organica minima delle Rsa è prevista in relazione al livello assistenziale da garantire agli ospiti, in rapporto al grado di non autosufficienza e alla gravità della patologie e può essere articolata diversamente tra le differenti professionalità in rapporto alle esigenze prevalenti dei loro ospiti. Tuttavia gli standard minimi stabiliti dalle norme non sempre corrispondono a quanto sarebbe necessario in funzione delle caratteristiche effettive del servizio residenziale, chiamato a rispondere a bisogni dei residenti sempre più complessi e multi-dimensionali.
Al 1° gennaio 2022, i presìdi residenziali attivi nel Paese erano 12.576 per un totale di circa 414 mila posti letto, sette ogni 1.000 residenti. A livello territoriale l’offerta è maggiore nel Nord-Est con 10 posti letto ogni 1.000 residenti, mentre nel Sud è di poco superiore ai tre posti letto ogni 1.000 residenti e copre solo l’11% dei posti letto complessivi. Gli ospiti in totale sono circa 360mila, dei quali oltre tre su quattro sono anziani, in aumento del 4% rispetto al 2021, con un’inversione di tendenza che, dopo la pandemia, riavvicina il dato agli anni pre Covid.
Le differenze geografiche nell’offerta emergono anche analizzando la distribuzione delle strutture per dimensione. Il Nord-Est presenta una percentuale doppia (30,5%), rispetto al dato nazionale, di residenze di piccole dimensioni. Il Centro e il Sud sono invece caratterizzati da una maggioranza di strutture di media dimensione (fino a 45 posti letto contro gli 80 delle altre regioni). Un dato evidente anche quando si parla di anziani non autosufficienti, che vede 28/31 posti letto ogni 1.000 utenti, contro i meno 6 posti letto ogni 1.000 al Sud. L’Istat ha evidenziato che la titolarità delle strutture è in carico ad enti non profit nel 45% dei casi, a seguire ad enti privati (circa il 24%), ad enti pubblici (19%) e ad enti religiosi (12%). La gestione dei presidi residenziali è affidata prevalentemente a privati (75% dei casi), soprattutto non profit (51%). Il 12% delle residenze è gestita da enti di natura religiosa e circa il 13% dal settore pubblico.
Nelle attività svolte in queste strutture i lavoratori impiegati sono più di 340mila, a cui si aggiungono oltre 31.500 volontari e poco più di 4mila operatori del servizio civile. L’11% del personale è composto da cittadini stranieri. In due casi su tre extraeuropei. La distribuzione varia considerevolmente: se nel Nord-Ovest e nel Nord-Est si concentra rispettivamente il 15% e l’11% del personale straniero, nel Sud e nelle Isole la presenza straniera sfiora appena il 2%.
Le principali figure professionali occupate nelle strutture residenziali assommano a oltre 200mila addetti e costituiscono mediamente il 70-75% della forza-lavoro impiegata assorbendo il 70% delle risorse economiche. Si concentrano soprattutto in ambito sanitario, e sono rappresentate da tre professioni: operatori socio-sanitari (34,6%), infermieri e addetti all’assistenza alla persona (entrambi all’11%). Anche gli operatori del servizio civile e i volontari lavorano prevalentemente all’interno dell’ambito socio sanitario, nel 79 % e nel 77 % dei casi, con punte che sfiorano il 90% nel Nord-Est del Paese. Tutto questo personale è soggetto a forte usura psicofisica. Inoltre nelle Rsa italiane mancano all’appello il 21,7 % degli infermieri, il 13 % dei medici e il 10,8 % degli operatori sociosanitari. Per questa ragione, in 3 strutture su 4, nell’ultimo anno, è cresciuto il burnout dei dipendenti, è peggiorata la qualità dei servizi e si è assistito ad un aumento dei costi del personale.
L’allarme è stato lanciato da tempo. In Italia mancano circa 70 mila infermieri. Un dato che preoccupa Governo e Regioni, che intanto guardano all’estero per far fronte alla carenza. Il Ministro Schillaci ammicca all’India, mentre Regione Lombardia si sta rivolgendo al Sud America e - secondo quanto riferito - l’assessore al Welfare, Guido Bertolaso, reputa ormai imminente un accordo con il Paraguay per acquisire tra i 2.500 e i 3.000 infermieri. Può essere un bene attivare i canali internazionali per far fronte a quella che è una vera e propria emergenza, ma non basta solo portare gli infermieri in Italia. Già nell’immediato, infatti, occorre fornire un quadro normativo chiaro su tutto il territorio nazionale, sbloccando l’iter in corso nella Conferenza Stato-Regioni e risolvendo le criticità ancora esistenti.
Tra i nodi emersi anche la forte eterogeneità territoriale
Un confronto tra 12 Regioni ha mostrato che le diverse normative hanno prodotto standard assistenziali, tariffe e criteri di classificazione degli ospiti diversi. Ciò ha avuto ripercussioni sull’operatività dei gestori e sulla loro capacità di rispondere ai bisogni degli ospiti delle strutture. Lo sforzo delle aziende nel superare la crisi è notevole, ma per un reale cambiamento è necessario che le singole risposte siano coordinate in una visione d’insieme più ampia. Affrontare la crisi del personale è possibile, ma serve un investimento in una duplice direzione: ripensare i servizi in funzione anche delle nuove necessità dei professionisti e operatori e investire ancora di più sulle persone
Per rendere nuovamente attrattiva la professione infermieristica è necessario migliorare il trattamento di tali figure così da invertire la drammatica situazione di carenza che, qualora non trovasse una soluzione, potrebbe minare alla base la capacità del Ssn di rispondere alle esigenze dei cittadini. Nel comparto pubblico i livelli retributivi sono cresciuti troppo poco, in misura inferiore all’inflazione.
Se si guarda alle strutture private, inoltre, il dato è ancora più evidente, soprattutto nell’area della territorialità, anche se l’attuale situazione non può addebitarsi alle singole strutture, le cui condizioni economiche, a causa del mancato adeguamento di rette e tariffe, non hanno sinora consentito di incrementare le retribuzioni.
Per cambiare un simile quadro è necessario uniformare quanto più possibile i Ccnl del settore privato, che dovranno tendere a quelli pubblici, così da evitare disparità di trattamento e da consentire peraltro alle strutture una maggiore forza di contrattazione con il Ssn.


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