Aziende e regioni

Azienda Zero: la nuova governance fa i conti con gli errori del passato

di Enrico Caterini* ed Ettore Jorio*

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24 Esclusivo per Sanità24

Prove di regionalismo differenziato. Meglio, di tentativi esercitati - troppo a mano libera - con leggi regionali nell’assoluta incuranza dei principi fondamentali fissati dallo Stato, a mente dell’art. 117, comma 3, Cost.
L’esigenza post (solo per scaramanzia) Covid19 è forte, e la si comprende. Ma la Costituzione non tollera atti di “ribellione”. La stessa, infatti, consentirebbe ciò che sta accadendo a conclusione del percorso indicato dall’art. 116, comma 3, Cost., abilitativo di una ulteriore autonomia legislativa in materia della tutela della salute rispetto a quella ordinariamente concorrente.
Dalle aziende alle agenzie, uno scopo nobile
Da entusiasti del regionalismo differenziato - ove gli ambiti nei quali rivendicare una competenza esclusiva ogni Regione dovrebbe selezionarli con il lanternino e non già con intenti da grossista (come preteso dal Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna, per quest’ultima eccetto l’istruzione) - nutriamo grandi perplessità. Le nutriamo in relazione alla “moda”, importata dal Veneto dei Benetton, di fare ricorso alla cosiddetta Azienda-Zero per migliorare (dicunt) la gestione dei rispettivi servizi sanitari regionali.
Crediamo tuttavia che tutto sommato sia una invenzione buona, ma nell’ottica di de-aziendalizzare il sistema della salute introducendo quello delle agenzie. Una agenzia nazionale e tante quante sono gli attuali 21 sistemi, 19 regionali e due provinciali. Sarebbe il modo attraverso il quale i decisori politici limitassero la loro attività, agli indirizzi e al controllo, lasciando ciascuno alla loro agenzia regionale il compito di attuazione e gestione, funzionali a portare la salute a casa dei cittadini, nonché di rendicontare puntualmente la spesa sostenuta e il risultato conseguito. Ovviamente, una agenzia regionale retta da un responsabile individuato con concorso pubblico internazionale, così come si fa con i vecchi soprintendenti in materia di tutela e valorizzazione dei beni culturali, ovvero - come quelli più domestici – per selezionare i preposti alle Agenzie delle entrate. Insomma, il vecchio sano mezzo agonistico attraverso il quale si scelgono, da sempre, magistrati e segretari comunali, raramente inadempienti ai loro compiti e protagonisti di illeciti.
L’esigenza di un Parlamento immune dalle pretese della tifoseria politica
Venendo all’attuale schema costituzionale, la domanda che viene a porsi spontaneamente, visto cosa è successo nel corso della pandemia ove la debolezza organizzativa dell’offerta delle protezioni salutari ha prevalso, è se le Regioni possano essere libere o meno di legiferare a loro piacimento in materia di tutela della salute, fermo restando il loro obbligo erogativo dei Lea fissati dalla Stato.
La risposta, a nostro avviso, non può essere fornita in via general generica bensì discriminata, seppure non condivisibile a situazione vigente. Trattandosi della tutela di un diritto fondamentale, spetterà al Parlamento infatti il compito di stabilire, a maggioranza assoluta, i promossi e i bocciati a conclusione dell’esito procedurale recato dall’anzidetto art. 116. Ed è qui che casca l’asino!
Necessita, pertanto, un Parlamento che agisca prescindendo dall’esigenza politica di favorire le proprie Regioni e che sappia (e voglia) fare analisi di merito sulla capacità di quelle istanti, esprimendosi secondo i desiderata della Costituzione. Non conta, quindi, la corsa alla pretesa regionale bensì la ragionevolezza ad attribuire legislativamente una tale ulteriore potestas legislativa alle istituzioni regionali meritevoli. Dunque, non un todos caballeros alla Carlo V, simbolo della concessione a chiunque, bensì un altro mattone a protezione dell’unità sostanziale della Repubblica e a tutela differenziata della salute, difficile da concepirsi con rilascio di deleghe in bianco in favore di Regioni inadempienti da decenni.
Azienda Zero, un tentativo da considerarsi tale
La istituzione oramai al galoppo di Azienda Zero - ancorché non propriamente rispettosa della Costituzione perché al di là delle previsioni fondamentali recate dal vigente d.lgs. 502/1992 - poteva e può rappresentare comunque il vero banco di prova della capacità legislativa delle Regioni interessate e, poi, di quella gestoria. Una occasione sprecata leggendo le leggi approvate dalle cinque Regioni (Calabria, Lazio, Liguria, Piemonte e Veneto) delle quali nessuna ha previsto quantomeno la presenza di norme veramente capaci di regolare il percorso di integrazione di un siffatto strumento nel loro sistema della salute. Da qui, l’esigenza di rivedere, anche più volte, il testo legislativo approvato, con il risultato di generare confusione nell’esercizio delle competenze, degli enti coinvolti, e dunque di ritardarne l’attivazione.
Tali cambiamenti, acrobatici rispetto alle regole costituzionali, devono essere approcciati con iuicio, più di quanto veniva indicato a Pedro dal gran cancelliere di Milano, Antonio Ferrer, con la carrozza circondata dalla folla in rivolta per la carestia. La Nazione lo pretende dopo le pene impostele da un virus che ha fatto della persona ciò che ha voluto, senza la dovuta interdizione di una assistenza territoriale, cui si è tentato di porre rimedio con il DM 77/2022.
Come tutti i buoni tentativi, anche questo necessita di tanto lavoro prima di essere clonato.
Per intanto, dovendo accingersi a modifiche sostanziali degli ordinamenti regionali, ciascuna Regione dovrebbe preventivamente valutare bene le proprie esigenze, sia in termini di fabbisogno epidemiologico che di rischi organizzativi ed epidemici. Non solo. Occorrerebbe che misurasse il tasso della propria resilienza, al fine di evitare l’approccio ad una riforma inconsapevole e incosciente.
Quanto al Veneto è terra da prendere ad esempio
La legge regionale imitata dalle altre è stata quella veneta (l.r. 19/2016). Proprio perché voluta da una Regione riconosciuta come esempio indiscusso di efficienza sul piano dell’offerta sanitaria, tale legge è stata sottoposta ad una analisi quasi “chimico-clinica”. Sono fioccate le critiche, a cominciare da chi scrive, solite nei confronti di chi si esprime per primo nei consessi, condizionato poi alla sintesi finale. Tutto questo è avvenuto nonostante che fosse stata elaborata da chi di leggi è un/una esperto/a riconosciuto/a, umile nell’approccio alle critiche costruttive.
L’idea portante desumibile dalla comparazione della ratio che ne regge l’impianto con lettera lascia desumere che l’idea del legislatore veneto fosse quella di partorire una agenzia d’avanguardia e non già una azienda zero- holding, così come impropriamente definita in alcune interpretazioni aziendalistiche. Una lettera che comunque richiede una qualche implementazione di parte della disciplina complessiva.
Da qui, forse, il mancato riferimento all’imprenditorialità di cui all’art. 3, comma 1 bis, del vigente d.lgs. 502/1992, così come modificato dalla riforma ter del 1999. Quindi, uno strumento di rafforzamento della governance regionale, specie in riferimento al contributo che la stessa potesse fornire in termini di analisi del fabbisogno e di supporto alla programmazione nonché alla determinazione degli indirizzi da fornire agli enti gestori. E ancora. Così come scritta la legge regionale veneta, lascia captare una importante aspettativa del legislatore, consistente nell’affidare ad essa il compito di rafforzare il coordinamento, per suo tramite, con le aziende della salute e di migliorare i rapporti di interscambio tra l’organo politico e il sistema, cui sono attribuite funzioni imprenditoriali (bisogna correggere in tal senso la legge istituiva delle aziende ordinarie venete!) di diretta resa dei Lea all’utenza.
Al seguito della Regione dei Dogi
Ancorché è da tener presente che la Regione Piemonte ha insediato (con la l.r. n. 26/2021) l’Azienda sanitaria Zero (art. 23) nello schema della sua l.r. n. 18/2007, le altre tre regioni hanno seguito le orme dei veneti. Lo hanno fatto con microscopiche differenze rispetto all’”originale”, per le più dimostrative di volerla imitare del tutto, resesi peraltro necessarie perché la legge del Veneto tiene debitamente conto della forte attribuzione di competenze risalenti in capo all’istituita Area sanità e sociale, garante dell’equilibrio nei rapporti tra organo politico e gestorio, con al vertice Azienda Zero.
Insomma, quasi tutte uguali anche nelle disattenzioni nonché nelle dimenticanze riguardanti il modello di Azienda Zero. Su tutte, quella della omessa autonomia imprenditoriale da riconoscerle e una serie di norme che ne mettono in discussione l’autosufficienza gestionale ovvero, contraddittoriamente, ne sottopongono l’esercizio di alcune importanti funzioni alla burocrazia regionale, persino in una Regione commissariata come la Calabria, che rintraccia nel commissario ad acta il deus ex machina. In tutte mancano - nel Veneto compensate con interessanti provvedimenti amministrativi adottati al riguardo - norme regolatrici della loro attivazione, non facile da realizzarsi perché facile a determinare conflittualità gestorie con la filiera ordinaria delle aziende della salute. Per non parlare del ricorso alle cosiddette norme di salvaguardia, divenute oramai clausole di stile, recanti per lo più indicazioni di tutela generica sul non incremento della spesa, spesso contraddittorie con quanto occorre poi per garantirne il funzionamento di ciò che non si può altrimenti assicurare alla comunità assistita.
Lo start è la parte più difficile
Tanti i provvedimenti attuativi adottati dal Veneto, ma non sufficienti a determinarne una efficiente attivazione. Le altre quattro sono in procinto di farlo, ma con facili difficoltà nell’evitare sovrapposizioni, conflittualità nell’esercizio delle competenze, smentite riferite allo status giuridico delle aziende ordinario, al temibile svuotamento delle funzioni istituzionali assegnate ai Dipartimenti regionali.
Il Piemonte con una recentissima delibera di Giunta regionale ha approvato il cronoprogramma per introdurre a regime la sua Azienda sanitaria Zero.
Si è limitata a scandire cinque appuntamenti preparatori di provvedimenti fondamentali per la sua esistenza attiva: la redazione, entro l’imminente 31 luglio, del piano delle attività 2022/23 da sottoporre all’Esecutivo regionale; da agosto 2022 in poi (!), l’attivazione del sistema di telemedicina e del coordinamento per realizzare il potenziamento della medicina di prossimità; il supporto tecnico per la valutazione delle tecnologie sanitarie HTA; l’attività di coordinamento per la progettazione afferente a finanziamenti europei; dal mese di settembre in poi (!), la definizione dei piani di acquisto annuali e pluriennali di beni e servizi e il monitoraggio della spesa farmaceutica e protesica; da ottobre in poi (!), una serie di coordinamenti, supporti, monitoraggi e controlli della reta logistica distributiva; una attività di coordinamento per l’innovazione e la ricerca in sanità integrata; dal mese di dicembre in poi (!), la gestione dell’emergenza-urgenza extra-ospedaliera, ivi compresa quella neonatale e quella riguardante il trasporto del sangue ed emoderivati.
A ben vedere, si registra un clima di generalizzata difficoltà attuativa, tanto da ricorrere a provvedimenti dal contenuto banale, intendendo per tale regolamentativo di funzioni che sarebbero dovute essere attive da decenni, pena responsabilità non solo politiche.
Di certo occorre più cura e attenzione, ma soprattutto la capacità di ogni Regione a (ri)adattare le proprie leggi sulla base delle proprie peculiarità oro-demografiche, delle deficienze sistemiche e di correzioni degli indici di sofferenza dell’utenza. Non averlo fatto sino ad oggi e non farlo è, rispettivamente, costato e costerebbe una aggiunta alla collezione degli errori di ieri. Con questo, tante difficoltà operative, strumentali a generare disastri e una iniziativa da buttare alle ortiche.

*Laboratorio permanente per gli studi e la ricerca nel settore del diritto e dell’economia sanitaria dell’Università della Calabria


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