Aziende e regioni

Quando finisce una pandemia?

di Ketty Vaccaro *

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24 Esclusivo per Sanità24

Oggi in Italia, e così come e forse in misura maggiore in altri paesi, sembra di essere vicini ad una conclusione sociale della pandemia da Covid-19, che può anche prescindere dal suo andamento dal punto di vista sanitario. Siamo quasi a una percezione e valutazione selettiva dei dati: se è vero che negli ultimi giorni il trend dei positivi, del numero dei ricoverati, delle persone in rianimazione appare in diminuzione, il numero dei morti rimane alto (oscilla intorno ai 200/250 al giorno), ma è soprattutto la preoccupazione collettiva ad apparire in netto calo.
Come storicamente è accaduto in altre situazioni pandemiche, la stanchezza delle restrizioni, l’insofferenza verso una sorta di sospensione continuata dell’emergenza, il bisogno di normalità cominciano a prevalere nettamente nel sentimento collettivo, rinforzati dalle decisioni di allentamento delle misure di cui si parla sempre più frequentemente in vari paesi europei.
Certo, una pandemia non finisce mai per decreto ma la annunciata decisione della fine in tempri brevi dello stato di emergenza può avere anche essa un effetto importante di ufficializzazione della conclusione di un periodo drammatico che tutti vogliono lasciarsi alle spalle.
Ancora una volta, gli effetti della scelte politiche e degli stessi annunci e la comunicazione nel suo complesso contribuiscono a produrre un effetto sociale rilevante, non necessariamente perfettamente allineato con la situazione sanitaria, in questo caso di netta riduzione della paura collettiva della pandemia e delle sue conseguenze. Una recente indagine Censis evidenzia che a fronte di una quota minoritaria (13,5%) a cui la pandemia non ha mai fatto paura, il 27,3% pensa che sia ormai tutto finito ed anche tra il 59% di italiani che dicono di temere ancora il contagio, il 31% è tuttavia convinto che comunque ne abbiamo ancora per poco e che tutto sta per finire.
Certo, rispetto a una fase iniziale di impreparazione e completa incertezza anche sui mezzi per fronteggiare la situazione, oggi il quadro è decisamente migliorato e non soltanto per il trend in diminuzione di contagi e ricoveri. Disponiamo di molti più strumenti che ci consentono di guardare con più fiducia al futuro: i vaccini, anche i nuovi in sperimentazione, e i farmaci, insieme a qualche soluzione organizzativa che va oltre la sola ospedalizzazione.
Ma questa rimane una fase delicata, che ha bisogno di un attento monitoraggio, proprio nei suoi aspetti psicologici, sociali e culturali.
Non si tratta solo della constatazione del permanere in molti altri paesi di situazioni in cui i contagi sono ancora elevati, o della possibilità di nuove varianti o di nuove ondate cicliche. Si tratta di prendere atto della rilevanza fondamentale della dimensione sociale della pandemia e degli effetti e delle scelte della popolazione, legate a dinamiche che non hanno necessariamente a che vedere con quelle sanitarie, ma che sono anche esse prevalentemente sociali. Pensiamo agli effetti della comunicazione mediatica e alla sua capacità repentina di spostare l’attenzione su nuovi drammi come sta accadendo in questi giorni con il conflitto in Ucraina.
Abbiamo imparato a nostre spese che la pandemia è una esperienza collettiva, fortemente condizionata proprio da una dimensione sociale e culturale di cui bisogna necessariamente tener conto, non fosse altro per quella consapevolezza, che dovrebbe essere già totalmente acquisita, che anche le azioni da porre in essere per combatterla non possono che essere collettive e condivise.

* Responsabile Area salute e welfare - Fondazione Censis


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