Aziende e regioni

La Casa della Salute tra distretto, cronicità e assistenza primaria

di Gilberto Gentili (past president Card Italia - Dg Asl Alessandria)

Uno dei temi che più frequentemente appare in campo sanitario è quello relativo alla modalità di presa in carico dei pazienti cronici, ovvero la tipologia di erogazione dei servizi sociosanitari sul territorio. Il tema, reso cogente dall’impatto economico e dal peso sempre maggiore che occupa negli atti programmatori centrali e delle Regioni, trova variamente impegnati i protagonisti del mondo sanitario a sostegno dell'una o dell'altra tesi.
Nel corso degli anni abbiamo assistito ad un proliferare di strutture che hanno perlopiù reso confuso il panorama nazionale e che spesso hanno impedito anche una corretta parametrazione del rapporto risorse impegnate/risultati ottenuti. Il cambio di paradigma, da tutti evocato, ovvero la necessità di passare da un approccio passivo ad uno attivo nella gestione dei percorsi della cronicità, si è concretizzato in forme associative varie della assistenza primaria, ed ancora in forma disaggregate dei distretti sanitari scomposti in sottomultipli a volte non ben identificabili ne tracciabili.

La contrazione delle Asl e dei distretti. Nella realtà , in questi anni abbiamo assistito ad una contrazione pressoché generalizzata del numero delle aziende sanitarie, passate dalle 659 del 1992 alle 104 del 2017. A questa contrazione, sulla cui necessità e bontà non intendo qui dissertare, si è associata la riduzione del numero di distretti (711 nel 2009 oggi circa 600). Molto spesso questo fatto si è caratterizzato come epifenomeno quasi scontato, conseguenza ineluttabile del fenomeno principale che era e pare essere tuttora la riduzione del numero delle aziende. Sulla ineluttabilità consequenziale di questo percorso varrebbe la pena di fare alcune considerazioni: se la medicina di prossimità è – come universalmente riconosciuto – un valore, tale valore si esalta e concretizza solo se le strutture erogatrici realizzano un contatto reale con i cittadini. Il distretto, attraverso la rete capillare dei medici generalisti realizza questa opportunità ed anzi ne fa una logica operativa , una mission concreta.
Tale mission sembrerebbe valorizzata ed esaltata nel caso specifico ove si attui una contrazione del numero delle aziende e conseguentemente si “distacchi” la gestione centrale dalla periferica determinando un bisogno effettivo di delega operativa e la necessità comunque di “testimoniare” la presenza di servizi e assistenza.
Il primo problema che si pone sarà quindi quello di identificare se, realmente , alla ridefinizione in senso aggregativo delle aziende sanitarie debba necessariamente seguire anche una contrazione dei distretti.
Il concetto di un Distretto assimilabile ad una piccola azienda si è perso nella insostenibilità di un modello che non ha mai trovato una applicazione reale.
La contabilità separata del Distretto normata dal D.lgs 229 del 19 giugno 1999 (legge Bindi) non è stata mai realizzata, il 51% delle risorse al territorio non esiste se non attraverso rendicontazioni “creative” che hanno veicolato su costi territoriali fattori di produzione ospedalieri (laboratori, diagnostiche etc.).
La assistenza primaria si è dispersa in forme aggregative di varia e composita natura che hanno generato modelli ad altissimo tasso di variabilità, mai tarati sui risultati ma sempre o quasi (direi che il gruppo rappresenta in questo senso una eccezione) elaborati sulla organizzazione e le sue variabili e soprattutto lontanissimi da ogni forma di approccio al paziente che possa sottendere un livello proattivo.
Le modalità di lavoro hanno prevalso sulla misurazione degli esiti, in ragione forse della necessità che l'assistenza primaria ha manifestato negli anni di ridurre il gap verso la medicina specialistica, ritrovando nella standardizzazione organizzativa quello che non poteva trovare in una base di percorso accademico comune.
Non è un caso che con il consolidamento e la strutturazione del corso di formazione specifico tale tensione si stia traslando verso un maggiore e senza dubbio opportuna centralizzazione sugli esiti.

Le case della salute. In questi scenari sono comparse da alcuni anni strutture come le case della salute che hanno riscosso in alcune Regioni un grande successo. Come si può rilevare dal sito governativo del ministero della Salute, «La Casa della salute è da intendersi come la sede pubblica dove trovano allocazione, in uno stesso spazio fisico, i servizi territoriali che erogano prestazioni sanitarie, ivi compresi gli ambulatori di Medicina generale e Specialistica ambulatoriale, e sociali per una determinata e programmata porzione di popolazione. In essa si realizza la prevenzione per tutto l'arco della vita e la comunità locale si organizza per la promozione della salute e del ben-essere sociale». In questa definizione è ben precisata la presenza fondamentale nella struttura del Medico di medicina generale.
Le case della salute sviluppatesi negli anni specie nelle Regioni del centro (Toscana ed Emilia) hanno fondamentalmente rispettato questo dettame e sono sorte attorno ad aggregazioni della assistenza primaria. La presenza del medico di famiglia dentro la casa della salute è stata paradigmaticamente considerata un “sine qua non” che precludeva in maniera netta la appartenenza della struttura a questa tipologia.
Nella realtà però tale presenza cozzava spesso con la necessità di giungere ad accordi specifici, a retribuzioni variabili per i medici e si scontrava contro la esistenza di strutture ambulatoriali, spesso di proprietà, ove i medici esercitavano la loro professione.

Ecco quindi che le case della salute pongono due interrogativi
1) Può esistere una casa della salute che non “contenga” i medici di assistenza primaria?
2) Quale mission può essere indicata nella realizzazione delle case della salute?
Alla prima domanda non possiamo che rispondere si: alcune Regioni (es. Piemonte) hanno lasciato amplissimi gradi di libertà soffermandosi più sulle funzioni svolte che sulle figure professionali e consentendo, anzi finanziando strutture che potevano esistere a prescindere dalla presenza del medico generalista.
Questo, si badi bene, non diminuisce di un “oncia” il peso che il medico di medicina generale ha nella erogazione dei servizi prossimali, ma ne esalta e conserva anzi la primogenitura.
Sulla mission potremmo invece dire che una focalizzazione sulla cronicità parrebbe compendiare le tematiche maggiormente impattanti, intendendo con ciò tutto quello che è ricompreso tra fragilità intesa a carattere socio sanitario e cronicità.
La attuale sistematizzazione delle funzioni da svolgere assimilano fortemente le case della salute ai distretti , di fatto ricomponendo quel gap numerico che nel corso degli anni ha visto piuttosto scendere le strutture distrettuali. In questo senso , ovvero nel recuperare una azione di supporto ai piani di sostegno a fragili e cronici, la casa della salute può fungere da aggregatore di servizi esistenti e magari frammentati consentendo investimenti strumentali ammortizzabili in un numero adeguato di ore assistenza e presidiando tutti i processi di sostegno alla azione della assistenza primaria.
Si tratta di definire una “casa” per sostenere le cure a casa, le più eticamente ed economicamente gradite al paziente, servizi erogati in ambiti prossimali con rispetto dei Pdta e con lo scopo di cortocircuitare i meccanismi usuali di prenotazione (Cup).
L'elemento fondamentale di un siffatto progetto è quello di delocalizzare la specialistica, un pò meno sottomultiplo del distretto, ma piuttosto centro di aggregazione di un reale e costante supporto alla domiciliarità.
Inutile rincorrere la aggregazione dei medici di famiglia depauperando le sedi disagiate e periferiche, quelle ove solo la medicina di famiglia arriva e nelle quali, anzi,l a presenza andrebbe incentivata in varie maniera. Parrebbe piuttosto centrale monitorare i percorsi del paziente cronico, presidiandone i punti focali e gli snodi operativi. In questa tipologia di attività risulta evidente e centrale la modalità di lavoro e la multidisciplinarietà che potrebbe trovare nell'infermiere di famiglia o di comunità , il principale protagonista, il volano delle azioni di supporto a medici e pazienti.
Non più quindi un “piccolo distretto” quanto piuttosto la centrale operativa dei progetti di supporto alla domiciliarità e, laddove presente, alla residenzialità dei pazienti cronici, alla loro identificazione quando ancora siano nello stato di fragilità fino alla presa in carico nella malattia conclamata. Controllo della aderenza, verifica della esecuzione degli esami di laboratorio, pianificazione delle consulenze specialistiche che il medico di famiglia ritenga necessario attivare nell'ambito del Piano individuale di assistenza.
Un quadro forse meno totipotente ma maggiormente caratterizzato sui compiti, meno “aggredibile” sul piano delle richieste inappropriate che spesso disperdono risorse in polverizzazioni inutili di centri prelievi, medicherie etc.
Un passaggio evidente, in alcune situazioni ad azioni di politica sanitaria piuttosto che di politica della sanità …. Rimarrebbe imprescindibile il legame con il medico di assistenza primaria, sia che questi acceda come attività ambulatoriale alla struttura sia che decida di continuare nel proprio studio da singolo o ancora meglio da associato.
Il medico troverebbe ausilio e supporto nel percorso di gestione dei malati cronici in una prospettiva di non sovrapposizione e di regia programmatoria , che verrebbe pianificata grazie alle case della salute ed agli operatori dedicati.
Il numero e la tipologia dei ricoveri più che la presa in carico dei codici bianchi , che viene in maniera discutibile presa a unità di misura, assieme alla aderenza darebbe un quadro di valutazione estremamente realistico di quanto realizzato in queste strutture che diventerebbero, se omogeneamente diffuse, in adeguati bacini di utenza, i terminali attraverso cui il distretto realizza la rete della presa in carico e della continuità della assistenza.
Su questa base concettuale ovviamente resterebbe validissima la modellistica sviluppata in questi anni da alcune Regioni, che hanno investito fortemente su queste strutture, ma il nodo paziente cronico deve rimanere centrale e percettibile poiché è il problema dei problemi, il tema dominante ove si giocherà la grande partita della sostenibilità del Servizio sanitario nazionale.


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