Medicina e ricerca
Maculopatia, anche in Italia prima sperimentazione della terapia genica per forma umida al Gemelli
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Anche l’Italia entra a far parte della sperimentazione di ABBV-RGX-314, una terapia genica per il trattamento della degenerazione maculare umida legata all’età. Secondo caso in Europa, dopo la Francia, nell’ambito di uno studio clinico di fase 3 già avviato negli Stati Uniti, la sperimentazione partirà al Gemelli di Roma e sarà guidata da Stanislao Rizzo, direttore del Dipartimento di Oculistica del Policlinico A. Gemelli IRCCS e ordinario di Oculistica presso l’Università Cattolica di Roma.
“È una delle emergenze con le quali gli esperti dovranno confrontarsi sempre più spesso. La degenerazione maculare legata all’età attualmente interessa oltre un milione di italiani e impedisce una visione distinta e chiara degli oggetti e dei colori. Un panorama destinato a cambiare nel prossimo futuro anche grazie all’arrivo della terapia genica – dichiara Rizzo -. La maculopatia è una patologia che compromette in maniera significativa la qualità della vita dei pazienti ed è molto diffusa: riguarda il 2% degli italiani e aumenta con il crescere dell’età – osserva -. È ormai una malattia sociale che rappresenta la causa più frequente di ipovisione e disabilità visiva dopo i 50 anni, nel mondo occidentale. Esistono due forme: quella secca, la più comune che rappresenta l’85% di tutte le forme, e determina una perdita lenta della visione centrale, e quella umida o essudativa che, al contrario, si manifesta con sintomi che generalmente compaiono all’improvviso e peggiorano rapidamente. La forma essudativa è causata dalla formazione di nuovi vasi sanguigni anomali negli strati interni o al di sotto della retina, che possono perdere sangue o liquidi, provocando la cicatrizzazione della macula e un danno irreversibile ai fotorecettori – spiega l’esperto -. La terapia della forma umida si avvale da qualche anno degli anti-VEGF, diretti contro un fattore di crescita che facilita la proliferazione dei nuovi vasi nella regione maculare, in grado di ridurre il rischio di perdita della vista centrale. Tuttavia questi farmaci devono essere iniettati in maniera continuativa, in genere una volta al mese, anche per tutto il resto della vita, con notevole impegno di tempo e risorse da parte del paziente e dei caregiver. Da qui la necessità di trovare terapie innovative come quella genica, soprattutto per ridurre il numero di iniezioni per questi pazienti”.
Per la terapia genica della degenerazione maculare essudativa si utilizza un vettore virale, che porta nelle cellule un gene con istruzioni per la produzione di specifiche proteine. “ABBV-RGX-314 è un farmaco che trasporta istruzioni genetiche per la produzione di proteine anti-VEGF – spiega Rizzo -. Dopo una sola iniezione del farmaco nello spazio sottoretinico, che avviene in sala operatoria con anestesia locale, l’occhio in sostanza inizia a produrre autonomamente le proteine che gli servono per contrastare la proliferazione dei vasi sanguigni, agendo come quegli stessi farmaci che iniettano le sostanze dall’esterno”, precisa.
“La sperimentazione è promettente, ma è ai primi passi. Bisognerà aspettare i risultati nel tempo per capire se ciò si tradurrà nella possibilità di una visione stabile nel lungo termine, senza lo sforzo anche logistico ed emotivo di iniezioni intravitreali continue”, sottolinea Rizzo.
Le altre terapie all’avanguardia: gli impianti intraoculari
Sono già disponibili o allo studio nuove cure che possano ridurre l’impatto del trattamento, con una lunga durata d’azione che consentirà di prolungare gli intervalli tra una iniezione vitreale e l’altra. Dopo il recente arrivo in Italia di faricimab, il primo anticorpo bispecifico ‘a doppio bersaglio’, che oltre ad agire come anti-VEGF blocca l’angiopoietina-2 coinvolta nella crescita anomala di nuovi vasi, è da poco stato approvato un ulteriore nuovo farmaco, aflibercept 8 mg, capace di prolungare gli intervalli di ritrattamento fino a 5 mesi con conseguente riduzione del numero di iniezioni per i pazienti. Ma non solo. Ora è atteso l’arrivo dell’impianto intraoculare di ranibizumab, un anti-VEGF già disponibile per le iniezioni intravitreali che può essere inserito in un piccolo serbatoio ricaricabile da impiantare chirurgicamente nella parete dell’occhio, per erogare quotidianamente piccole quantità di farmaco. “La strategia terapeutica prevede di inserire nell’occhio piccoli serbatoi che rilasciano gradualmente il farmaco dall’interno e che possono essere ‘ricaricati’: il lento rilascio allunga il periodo d’azione del farmaco e consente così di ridurre il numero delle iniezioni necessarie all’anno – afferma Rizzo -. La stessa strategia si sta perseguendo per un altro principio attivo con un diverso meccanismo d’azione, ma con un analogo effetto di blocco della formazione di nuovi vasi, l’inibitore di tirosin-chinasi axitinib, per il quale è stato appena avviato uno studio clinico di fase 3. In questo caso si utilizza un impianto di idrogel riassorbibile che eroga il farmaco stabilmente per diversi mesi e, stando ai risultati dei trial di fase 1 e 2, potrebbe tagliare del 90% la necessità di iniezioni intravitreali”, conclude.
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