Medicina e ricerca
Psicotecnologia: come la realtà virtuale stravolge le categorie di spazio e di tempo
di Benedetta Guerrini Degl’Innocenti*
24 Esclusivo per Sanità24
La comparsa sulla scena della tecnologia virtuale ha sancito un forte elemento di
discontinuità con l’intera evoluzione tecnologica precedente: le nuove tecnologie hanno
reso per la prima volta possibile creare e abitare interi universi di esperienza slegati dalle
dimensioni materiali e concrete, delineare spazi tra la mente e la realtà, amplificare ed
estendere facoltà psichiche e sensoriali, tanto che de Kerckhove, sociologo e giornalista
Canadese, ha definito questo nuovo spazio “Tecnologia della mente o psicotecnologia”.
Queste nuove tecnologie, che funzionano talvolta come vere e proprie protesi psichiche,
possono consentire di espandere, in modo pressoché illimitato, le dimensioni di
un’esperienza che è virtuale, ma al tempo stesso realistica, aprendo così a nuovi campi
dell’esperienza. La realtà virtuale stravolge le categorie di spazio e di tempo, le
connessioni, e le condizioni su cui si costruisce la nostra soggettività; di conseguenza le
nostre idee riguardo alla realtà devono essere costantemente riviste, dal momento che la
realtà virtuale, come diceva Umberto Eco, si finge più reale della realtà stessa.
Se pensiamo a come la cultura tecnologica attuale abbia reso possibile trascendere il
corpo piuttosto che accettarlo come un caposaldo della realtà, possiamo ad esempio
comprendere come il ritirarsi nel cyber-spazio possa essere usato da alcuni adolescenti
come un modo di bypassare le implicazioni psichiche di essere-in-un-corpo e le ansie che
ne possono derivare. La letteratura clinica, che comincia ad essere già di una qualche
consistenza, ci mostra come certi adolescenti sofferenti possano utilizzare lo spazio
virtuale come una sorta di enclave psicotica; in questi casi lo spazio virtuale sembra poter
permettere a questi adolescenti di gestire la confusione e il disagio derivanti dal corpo
reale e dalle sue trasformazioni. Lo spazio virtuale può avere a che fare con il senso di
solitudine, ma l’immediatezza di internet che facilita una istantanea soddisfazione del
desiderio può determinare, come ben noto, una crescita dei comportamenti di dipendenza:
come un grande bar sempre aperto. Accanto a quelle situazioni cliniche in cui l’abuso
virtuale risulta al servizio della necessità di gestire disturbanti esperienze di diversità,
percepite come concretamente collocate nel corpo, ci sono altre situazioni nelle quali il
cercare rifugio nel virtuale non necessariamente è legato a problemi di immagine
corporea. Sarebbe infatti a mio avviso un errore il “fare di ogni erba un fascio”, attribuendo
lo stigma di rifugio psicopatologico a tutto quello che ha a che fare con il cyber-spazio,
spazio che tutti utilizzano in qualche forma, compresi gli analisti.
“Credo che le tecnologie siano moralmente neutrali fino a quando non le applichiamo. E’
solo quando si usano per il bene o per il male che diventano bene o male” sosteneva
William Gibson. Al contrario forse sarebbe saggio considerare la possibilità che questa
possa essere un’area di nuove esperienze, anche se per la maggior parte ancora da
comprendere pienamente.
Ma che spazio è quello della tecnologia virtuale? La radice etimologica del termine
cyberspace, dal greco “Kybernan”, che significa controllare o guidare, ci dice qualcosa di
rilevante relativamente al fascino che è in grado di esercitare: al di là di ogni altra cosa il
cyberspace è fondamentalmente uno spazio nel quale sentirsi di avere il controllo di ciò
che accade; in quello spazio la realtà si può controllare e anche manipolare.
Immaginiamoci quanto sia più facile per un adolescente entrare in un mondo nel quale
puoi sentirti totalmente in controllo, dove ciò di cui hai bisogno può essere raggiunto e
ottenuto con un semplice click.
Il fatto che la definizione di ‘virtuale’ tipicamente si ponga in contrapposizione alla nozione
di ‘reale’ rischia però che la riflessione sulla natura della realtà virtuale possa essere
inutilmente cortocircuitata e polarizzata, cosicché il virtuale diventa subito equivalente di
‘non-autentico’, un ritiro dalla cosiddetta realtà. Se la questione prevalente fosse come
considerare l’impatto della realtà virtuale sul funzionamento mentale potremmo allora
semplicemente domandarci se il cyberspace sia un oggetto buono o cattivo. In termini
generali penso che tutti si possa concordare sul fatto che la risposta dipenda dall’uso che
ne viene fatto: se utilizzando lo spazio virtuale in modo onnipotente, controllante o
perverso, o, al contrario, per produrre qualcosa di buono, che in termini clinici potrebbe
anche ad esempio essere un temporaneo rifugio psichico per proteggere o riparare un sé
fragile. Per dirla in altri termini, come suggerisce Andrea Marzi nel suo libro Psicoanalisi,
Identità e Internet, è un oggetto buono se lo spazio virtuale viene usato per dare una
potenzialità di sviluppo più vitale, dove possa nascere un’esperienza di vivere anziché
semplicemente funzionare.
*Psichiatra e psicoanalista, membro Società psicoanalitica italiana-Spi
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