Lavoro e professione
Precariato in sanità: le cause e le possibili soluzioni
di Stefano Simonetti
24 Esclusivo per Sanità24
Nell’ambito del dibattito aperto sul "decreto PA" sul quotidiano La Repubblica del 31 maggio viene riferito un commento di un importante sindacato di rilievo nazionale riguardo alla situazione dei precari del pubblico impiego. È stato sottolineato che "Quindici dipendenti della Pubblica amministrazione ogni 100 sono precari... Tradotto in numeri assoluti vuol dire 437 mila lavoratori con contratti flessibili, di cui 63 mila nella sanità". A volte i aindacati hanno dati più realistici e affidabili dello stesso Conto annuale, ma per il comparto della Sanità, in ogni caso, qualcosa non torna. Il numero indicato corrisponde a poco meno del 12% del personale del comparto, se a questo si riferisce – come presumo – il dato, mentre se si parla del complessivo personale del Ssn, comprese le Aree dirigenziali, allora la percentuale sarebbe addirittura del 9%. Al di là dei numeri, è indiscutibile che i lavoratori a tempo determinato in Sanità sono troppi e reclutati impropriamente. Tuttavia qualche precisazione è d’obbligo, altrimenti la questione non risulta comprensibile in tutti i suoi numerosi e complessi aspetti. Il vigente Ccnl del comparto firmato il 2 novembre scorso dedica due lunghissimi articoli al rapporto di lavoro a tempo determinato (artt. 70 e 71). Nella prima delle due clausole contrattuali, al comma 3 si legge: "Il numero massimo di contratti a tempo determinato e di contratti di somministrazione a tempo determinato stipulati da ciascuna Azienda o Ente complessivamente non può superare il tetto annuale del 20% del personale a tempo indeterminato in servizio al 1° gennaio dell’anno di assunzione".
Molto particolare appare la definizione del numero massimo di contratti a TD, non tanto per la previsione del 20% – che è conforme a quanto stabilisce lo stesso decreto 81/2015 all’art. 23, comma 1 – quanto perché, se leggiamo tutte le fattispecie esenti dalla limitazione contenute nel comma 4, dobbiamo concludere che il ricorso al tempo determinato non è affatto uno strumento eccezionale e si contraddicono le stesse norme legislative che propugnano il "superamento del precariato nelle pubbliche amministrazioni" (cfr. la rubrica dell’art. 20 del d.lgs. 75/2017). In una azienda sanitaria, infatti, circa un quarto del personale potrebbe essere legittimamente assoggettato a lavoro flessibile.
Sul punto, forse, è opportuno fare un po’ di chiarezza. Le parti negoziali potevano senz’altro fissare nell’art. 70 una soglia più bassa perché quella stabilita dal decreto 81 vale per tutti i rapporti di lavoro subordinati, pubblici e privati, ma lo stesso art. 23, al comma 1 afferma "salvo diversa disposizione dei contratti collettivi non possono …" : nel Ccnl, dunque, la controparte sindacale poteva imporre un limite ben inferiore. È pur vero che la norma contrattuale include nel 20% i lavoratori in somministrazione, ma le questioni legate ai lavoratori interinali sono di tutt’altra natura e le sue contraddizioni sono radicate nel tempo, tanto che ne parlavo su questo sito addirittura il 7 agosto 2020. Le vicende successive hanno confermato l’assoluta impossibilità di stabilizzare questi lavoratori per cui è preferibile non trattare le problematiche del lavoro in somministrazione insieme a quelle del lavoro a tempo determinato.
Sempre in tema di aspetti generali della somministrazione, l’Atto di indirizzo del Comitato di Settore del 28 luglio 2017 imponeva di "individuare, anche in misura non uniforme, limiti quantitativi di utilizzo dell’istituto" (cfr. Titolo VII, paragrafo 2 “Ambiti innovativi di intervento”, quarto alinea). Ma il contratto del 2018 ha fatto rientrare tale limite in quello generale riferito al tempo determinato che, ricordiamolo, è il 20% del personale a tempo indeterminato in servizio al 1° gennaio dell’anno di assunzione, cioè veniva ipotizzata già dal precedente contratto una quantità impressionante di personale precario.
La problematica del precariato è del tutto fuorviata e lo dimostrano i numeri: se le norme vigenti consentono di avere un 20% di lavoratori a TD – tra l’altro con parecchie eccezioni – e dai dati recentemente forniti risulta che il personale a TD è nemmeno il 12 % del totale, di cosa stiamo parlando? Si potrebbe per assurdo arrivare a 108.000 lavoratori a tempo determinato e probabilmente molti Direttori generali non esiterebbero a colmare il differenziale per arrivare al 20% consentito.
Il rapporto di lavoro nelle amministrazioni pubbliche è ordinariamente a tempo indeterminato: infatti l’art. 36, comma 1 del d.lgs. 165/2001 lapidariamente afferma che le pubbliche amministrazioni "assumono esclusivamente con contratti di lavoro subordinato a tempo indeterminato". Subito dopo però al comma 2 viene previsto che "per rispondere ad esigenze di carattere esclusivamente temporaneo o eccezionale" può essere fatto ricorso a forme di lavoro flessibile tra le quali la più importante è senz’altro il rapporto di lavoro a tempo determinato (le altre sono il lavoro in somministrazione, il contratto formazione e lavoro e il lavoro accessorio).
Come è noto, il ricorso al lavoro a termine è sempre stato un aspetto patologico del pubblico impiego e ha portato a quel particolare fenomeno definito "precariato". Quando il numero dei dipendenti a tempo determinato risulta non più tollerabile e le condizioni politiche sono favorevoli, il Parlamento è stato in qualche modo costretto a varare leggi di sanatoria (nel passato) o di stabilizzazione (più recentemente). Vorrei ricordare che negli ultimi 45 anni il Legislatore ordinario è intervenuto per almeno quattordici volte a sanare le situazioni dei precari della Sanità. Le stabilizzazioni costituiscono un inequivocabile segnale di incapacità del sistema sanitario di reclutare correttamente e regolarmente le risorse umane necessarie ad erogare e garantire l’assistenza sanitaria. Se poi tale incapacità deriva dalla complessità e inefficacia sostanziale delle norme concorsuali, dai bandi che vanno deserti o da atteggiamenti opportunistici dettati dai cronici problemi finanziari da parte delle Regioni e delle Direzioni aziendali, non cambia molto i termini della problematica. Si potrebbe dire che più precari si stabilizzano, più se ne creano e questa logorante situazione che ricorda il mito di Achille e la tartaruga deve poter trovare una soluzione strutturale.
Il legislatore con il richiamato art. 36 ha formulato una norma che dietro la facciata di rigore ("esigenze di carattere esclusivamente temporaneo o eccezionale"), appare alquanto ipocrita e lascia in realtà il ricorso al lavoro a termine alla completa discrezione delle amministrazioni e, nello specifico caso della Sanità, con l’obiettivo di evitare l’interruzione nell’erogazione dei Lea, tali situazioni temporanee ed eccezionali sono evidentemente quotidiane.
È del tutto certo che la stragrande maggioranza dei 63.000 precari della Sanità non rispondono a "quelle" esigenze declinate dalla legge ma svolgono funzioni assolutamente ordinarie e strutturali. Se ci fosse la reale volontà di ricondurre il precariato a una quota ragionevole di assenze fisiologiche, l’unica formulazione da normare nell’art. 36 del Tupi sarebbe la seguente: "le pubbliche amministrazioni possono ricorrere a contratti di lavoro a tempo determinato esclusivamente per la sostituzione di personale assente con diritto alla conservazione del posto". Perché allora non si provvede in tal senso ? In realtà sembra proprio che manchi la volontà di sistematizzare la materia e le ragioni – per la Sanità - vanno ricercate in almeno tre direttrici: la complessità, a volte irritante, della normativa concorsuale, il perdurante blocco del turn over, diretto o latente, e precise strategie gestionali. Riguardo a quest’ultimo aspetto, si rileva che le determinazioni delle Direzioni aziendali – probabilmente obbligate da tanti fattori concomitanti, inclusi precisi indirizzi regionali – fanno spesso ritenere preferibile il lavoro flessibile a quello a tempo indeterminato. Non va infatti dimenticato che il lavoro flessibile costa meno (non come costo meramente finanziario ma come costo complessivo), gode di una flessibilità e celerità di scelta nettamente migliori e non comporta tutti gli irrigidimenti gestionali propri del tempo indeterminato. In tempi di continua e logorante scarsità di risorse finanziarie, queste determinazioni – opportunistiche quanto si vuole, ma senz’altro pragmatiche e, a volte, obbligate – sono l’unica strategia possibile per molte aziende sanitarie. Forse sarebbe il caso di cominciare a prevedere qualcosa di diverso, a esempio la revisione completa della normativa concorsuale e un sistematico ricorso al contratto di formazione e lavoro che risolverebbe contemporaneamente almeno due grandi criticità: quella dei concorsi ingestibili e quella dell’automatica trasformazione del rapporto di lavoro dopo due anni.
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