Lavoro e professione
Quando le parole del medico fanno male
di Nino Cartabellotta (presidente Fondazione Gimbe)
Se è certo che la comunicazione medico-paziente è il fondamento di una relazione ottimale finalizzata a decisioni realmente condivise, alcune informazioni possono non solo amplificare inconsapevolmente i sintomi dei pazienti, ma anche accentuare gli stress somatici, dimostrando il potenziale effetto iatrogeno delle parole del medico, che si aggiunge agli effetti collaterali di farmaci, test diagnostici e altri interventi sanitari. Per comprendere questo apparente paradosso, bisogna partire dalla consapevolezza che sintomi e malattie non si riflettono mai specularmente in un rapporto 1:1: infatti, accanto a sintomi che possono presentarsi in assenza di vere malattie, esistono patologie che rimangono asintomatiche anche in fase avanzata. Inoltre, l’estrema variabilità dei sintomi nella stessa patologia, sia tra pazienti diversi che nello stesso paziente, è mediata da opinioni, credenze e aspetti cognitivi che, pur non avendo la capacità di generare sintomi, possono amplificarli, perpetuarli ed esacerbarli, rendendoli più rilevanti, nocivi e fastidiosi.
Il potenziale iatrogeno delle parole del medico
Oggi le evidenze scientifiche documentano il potenziale iatrogeno delle parole del medico in molti ambiti: dalla descrizione degli effetti collaterali delle nuove terapie alla presentazione di risultati incerti di test diagnostici, dalla spiegazione del modulo di consenso informato alla preparazione del paziente a procedure dolorose. Ad esempio, conoscere tutti gli effetti collaterali frequenti e non specifici dei farmaci (es. astenia, difficoltà di concentrazione, nausea, vertigini e cefalea) aumenta la frequenza con cui questi vengono avvertiti e riportati: numerosi studi dimostrano infatti che i pazienti informati degli effetti avversi non specifici di un farmaco li riportano più frequentemente rispetto ai pazienti non informati. Lo stesso effetto nocebo, ovvero il manifestarsi di effetti collaterali al placebo, rappresenta la mirabile controprova che conoscere gli effetti collaterali aumenta l’incidenza di alcuni sintomi. Anche fornire risultati di test diagnostici dal significato clinico incerto può determinare un peggioramento dei sintomi: il fenomeno è peraltro in costante ascesa perché la disponibilità di tecnologie diagnostiche sempre più accurate e il loro utilizzo indiscriminato aumenta esponenzialmente i risultati poco chiari e la scoperta casuale di anomalie anatomiche (“incidentalomi”), spesso di rilevanza clinica incerta.
Il consenso informato contestualizzato
Anche nella spiegazione del consenso informato non è sempre facile bilanciare la necessità di informare il paziente in maniera completa con il potenziale iatrogeno di alcune informazioni. Per raggiungere un compromesso eticamente accettabile tra i due imperativi si può utilizzare il “consenso informato contestualizzato” che prevede, previo accordo con il paziente, di descrivere puntualmente tutti gli effetti avversi più gravi e clinicamente rilevanti, mentre i sintomi non specifici e/o clinicamente poco rivelanti non vengono illustrati al fine di evitare che possano presentarsi con maggiore frequenza. Infine, poiché il dolore è particolarmente influenzato da convinzioni, opinioni e aspettative dei pazienti, il linguaggio utilizzato per descrivere e preparare i pazienti a procedure dolorose può influenzarne la percezione: ad esempio, è dimostrato che comunicare alle partorienti sottoposte ad anestesia epidurale o spinale che l’iniezione può essere percepita come una puntura d’ape, caratterizzandosi come il momento peggiore della procedura, determina un dolore più intenso rispetto a spiegare che l’anestetico locale anestetizzerà l’area permettendo alla paziente di sentirsi più a suo agio durante la procedura.
Il circolo vizioso che amplifica la sintomatologia
Le informazioni fornite dal medico non generano dunque veri e propri sintomi, ma piuttosto amplificano soprattutto quelli che derivano da condizioni cliniche o da stati fisiologici preesistenti (es. ectopia, ipotensione ortostatica), disfunzioni benigne comuni (raucedine, gonfiore, crampi), disturbi transitori e autolimitanti (eruzioni cutanee, infezioni delle alte vie respiratorie), eventi stressanti. In questi casi, le parole del medico possono innescare un circolo vizioso che amplifica la sintomatologia: sapere che un sintomo può essere rilevante o attribuibile ad una condizione più severa genera preoccupazione nel paziente che inizia a monitorare e analizzare il sintomo in maniera sempre più accurata. Questo eccesso di attenzione amplifica la sintomatologia, rendendola più intensa, intrusiva e allarmante. L’errata percezione di gravità innesca la ricerca selettiva di ulteriori sintomi per confermare il sospetto che qualcosa non vada, determinando la percezione di altri sintomi diffusi, transitori o ambigui precedentemente ignorati, minimizzati o ritenuti insignificanti. L’emergenza di questi “nuovi” sintomi, a dispetto dei dati che non confermano la causa sospetta, viene paradossalmente percepita dal paziente come elemento di ulteriore gravità. Inoltre, il ciclo di amplificazione viene ulteriormente alimentato dall’ansia: una maggiore preoccupazione e attenzione per il significato clinico di un sintomo e il suo apparente aggravamento lo rende più minaccioso e angosciante, concretizzando per il paziente una modalità implicita di esprimere dubbi e preoccupazioni. I sintomi possono quindi diventare una modalità di comunicazione non verbale di ansia per il dolore, di diffidenza sui trattamenti, di preoccupazioni sul significato del risultato di un test diagnostico o sulla competenza del medico.
Come evitare gli effetti collaterali dell'informazione
L’informazione fornita al paziente è dunque un importante mediatore della variabilità nella relazione fra malattie e sintomi: effetti avversi non specifici ai farmaci, dolore eccessivo conseguente a procedure e sintomi esacerbati da risultati di test diagnostici di incerto significato clinico sono determinati da meccanismi patogenetici simili e rispondono alle stesse strategie terapeutiche. Ecco perché tutti i medici dovrebbero essere sempre consapevoli degli “effetti collaterali” delle loro parole al fine di tarare al meglio contenuti e forma della comunicazione con l’obiettivo ultimo di migliorare l’esperienza di cura dei propri pazienti.
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