Aziende e regioni
Regionalismo sanitario/ Verso una sanità a macchia di leopardo?
di Vincenzo Antonelli (Università Cattolica del Sacro Cuore - Altems - Cerismas)
24 Esclusivo per Sanità24
Ineludibili ricadute sul sistema sanitario nazionale avrà il percorso di differenziazione avviato nel 2017 da tre Regioni italiane (Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna), giunto all’importante tappa (anche se non conclusiva) della possibile stipula di una intesa tra il Presidente del Consiglio dei ministri e i rispettivi Presidenti di Regione.
Si tratta di un percorso inizialmente alimentato dal positivo esito dei due referendum consultivi regionali del 2017 in Veneto e in Lombardia per rivendicare maggiori forme di autonomia, che avevano portato ad un primo negoziato con il governo centrale, cui si era aggiunta l’Emila Romagna, conclusosi il 28 febbraio 2018 con la sottoscrizione di intese preliminari, le cosidette “preintese”, tra il rappresentante governativo e i presidenti delle regioni coinvolte. L’avvento di una nuova compagine governativa a seguito delle elezioni del 4 marzo 2018 e gli impegni assunti nel “contratto di governo” hanno indotto le regioni a riaprire il negoziato, articolato su tavoli tecnici presso i diversi ministeri e “segreto”, del tutto sottratto al confronto pubblico. Se la preintesa si limitava a soli 5 settori materiali (politiche del lavoro, istruzione, salute, tutela dell’ambiente e dell’ecosistema, rapporti con l’Unione Europea), le nuove proposte di intese interessano le 23 materie evocate dall’art. 116 della Costituzione, salvo il caso dell’Emilia Romagna limitato a circa 14 materie.
Questo percorso rappresenta la prima attuazione di quanto previsto nel terzo comma dell’art. 116 della Costituzione, introdotto nel 2001 con la riforma del titolo V. La disposizione costituzionale prevede la possibilità, attraverso un articolato processo che coinvolge regioni, enti locali, governo e parlamento nazionale, di attribuire a singole regioni “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia” principalmente nelle cosiddette “materie concorrenti”. Ignorato per circa tre lustri è stato invocato nel 2017, anche a fronte della bocciatura referendaria della riforma costituzionale del 2016, per rilanciare la via italiana al federalismo e l’attuazione della riforma in senso federale della Repubblica disegnata nel 2001. Una strada inesplorata, di cui non sono ben chiare le conseguenze sul complessivo sistema istituzionale ed amministrativo del Paese. Nell’intenzione del riformatore costituzionale del 2001 vi era forse la volontà, a fronte della perdurante specialità che contraddistingue storicamente l’autonomia di alcune regioni, di prospettare forme “differenziate” dell’autonomia delle regioni ordinarie, da riconoscere nell’ambito di un ampio elenco di materie con scelte circoscritte e forse occasionali, in considerazione soprattutto di particolari condizioni socio-economiche dei rispettivi territori e comunità.
La strada intrapresa dal Veneto e dalla Lombardia, con la richiesta di maggiore e “particolare” autonomia in tutte le 23 materie, va oltre l’intenzione del riformatore costituzionale del 2001 e finisce per configurare un vero e proprio “tertium genus” di regione da collocare tra le regioni speciali e quelle ordinarie: una nuova regione “differenziata”. Una vera e propria eterogenesi dei fini! Allo stesso tempo si paventa il rischio di un neocentralismo regionale, di un accentramento di compiti amministrativi nelle istituzioni regionali e di conseguenza di un’ulteriore amministrativizzazione delle regioni. Le richieste regionali mirano infatti a dare attuazione anche ad una complessa redistribuzione delle funzioni amministrative come prospettato dall’art. 118 della Costituzione.
A fronte di questa imprevedibile soluzione assumono, dunque, maggior rilevanza e improcrastinabile necessità l’attivazione degli strumenti chiamati a garantire la tenuta unitaria del sistema: l’individuazione nei diversi settori dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale, l’enucleazione delle funzioni fondamentali degli enti locali, la chiarificazione dei rapporti finanziari tra centro e territori.
Se l’ordinamento si muove verso la differenziazione a macchia di leopardo diventa necessario garantire l’unità e la coesione nazionale, l’ordito unitario del Paese. In realtà sarebbe logico e ragionevole subordinare alla previa attivazione degli strumenti “unitari” nelle diverse materie il riconoscimento alle regioni di spazi di più ampia autonomia. Emerge al contempo la perdurante mancanza di una assemblea legislativa a carattere territoriale, quale sede di confronto e di decisioni condivise tra centro e territori, un vero e proprio riequlibratore del sistema.
La sanità come banco di prova. Banco di prova del nuovo regionalismo differenziato è certamente la sanità (che assorbe quasi l’80% dei bilanci regionali), già presente nelle preintese del 2017, che prevedevano “una maggiore autonomia” «finalizzata a rimuovere i vincoli di spesa specifici, con particolare riguardo alle politiche di gestione del personale», «in materia di determinazione del numero dei posti dei corsi di formazione per i Medici di medicina generale e di accesso alle scuole di specializzazione», «nell'espletamento delle funzioni attinenti al sistema tariffario, di rimborso, di remunerazione e di compartecipazione», «in ordine alla definizione del sistema di governance delle Aziende e degli enti trasversali del Servizio sanitario regionale», «in materia di istituzione e gestione di fondi sanitari integrativi». Più volte le preintese nel delimitare nuovi spazi di autonomia e differenziazione si preoccupavano di ribadire il “rispetto dei livelli essenziali di assistenza e dei vincoli di bilancio”. La successiva rinegoziazione ha portato le regioni ad estendere il novero delle rivendicazioni e ad un loro più ampia specificazione soprattutto da parte del Veneto.
La sanità costituisce un settore della vita pubblica che ha già sperimentato ed implementato a partire dal 1992, anche in chiave anticipatoria, la regionalizzazione dei servizi sanitari, la garanzia di livelli essenziali di assistenza e la determinazione dei fabbisogni e dei costi standard, assicurando per quanto possibile un faticoso equilibrio tra istanze regionali e limiti nazionali.
Le nuove pretese regionali non sembrano voler consolidare l’attuale assetto (già regionalizzato per quanto possibile) del servizio sanitario nazionale, magari muovendosi secondo una logica di maggiore solidarietà.
Le regioni, forse assecondate dal governo, rivendicano una piena “territorializzazione” o “regionalizzazione” dell’assetto istituzionale del sistema socio-sanitario regionale e dei relativi profili organizzativi, dell’organizzazione dell’offerta ospedaliera e territoriale, dei percorsi formativi delle specializzazioni mediche e sanitarie, della definizione della compartecipazione alla spesa sanitaria, della programmazione e della gestione del patrimonio edilizio e tecnologico, dei fondi sanitari integrativi.
Traspare l’intenzione delle regioni di sottrarre i rispettivi servizi sanitari a molti vincoli statali ed unitari. Se le richieste potrebbero anche in astratto apparire efficaci, manca una visione d'insieme, delle interazioni con le componenti del sistema sanitario nazionale. Se misure migliorative tanto sul versante istituzionale quanto su quello gestionale sono oggi possibili andrebbero invece condivise con l’intero sistema. Sottesa alle richieste regionali è una prospettiva “particolarista”, una frammentazione del servizio sanitario nazionale, la rivendicazione di una maggiore “libertà” nella gestione delle risorse spettanti, a discapito dei vincoli di solidarietà, della perequazione.
Il servizio sanitario nazionale, su cui avranno certamente delle ricadute le pretese delle tre regioni (Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna), ha al suo interno ancora sette regioni in piano di rientro, tutte appartenenti al mezzogiorno del nostro Paese; venticinque sui cinquanta Irccs pubblici e privati hanno sede nelle sole tre regioni ovvero la metà dei centri di eccellenza della sanità nazionale; quasi tutto il saldo attivo della mobilità sanitaria interregionale è prodotto dalle tre regioni ovvero le stesse attraggono moltissimi pazienti dal resto del Paese, che concorrono a finanziare i rispettivi servizi sanitari regionali.
Evidente è il rischio di scavare ulteriormente il solco tra le tre regioni “differenziate” e il resto del Paese, e in particolare il centro-sud. Un solco non soltanto sul piano istituzionale e amministrativo, ma soprattutto sul piano della fruizione delle prestazioni assistenziali e, dunque, della garanzia del diritto della salute delle persone.
Il pericolo che si corre è che dietro alla pretesa di una maggiore autonomia per meglio “efficientare” i servizi sanitari regionali si creino ulteriori disuguaglianze.
Non solo. Ma il percorso avviato dalla tre regioni sembra alimentare un inedito antagonismo con le rimanenti regioni ordinarie, che potrebbe a sua volta trasformare il federalismo italiano da cooperativo in concorrenziale, in un settore delicato e centrale qual è quello dei diritti sociali e del welfare state. Altre regioni in maniera emulativa hanno annunciato la volontà di iniziare la procedura prescritta dall’art. 116 della Costituzione, anche regioni in piano di rientro che vedono nell’autonomia differenziata un espediente per superare la situazione di difficoltà.
Non possiamo tacere anche la tentazione dello stato centrale di accettare le richieste regionali per nascondere le proprie assenze ed inefficienze.
Incerti appaiono infine i prossimi passi che dovranno compiere le regioni e le istituzioni statali. Una volta stipulata l’intesa tra governo e singola regione, quest’ultima dovrà procedere (per alcuni ancor prima della sottoscrizione finale) all’assunzione del parere degli enti locali operanti nel territorio regionale. Successivamente il Parlamento dovrà esprimersi - sebbene sia incerta se l’iniziativa legislativa spetti alla regione o al governo - con una legge da approvare a maggioranza assoluta dei componenti delle Camere, per prassi sul modello adottato per l’approvazione delle intese tra lo stato italiano e le confessioni religiose che esclude la possibilità di apportare modifiche da parte del Parlamento. Non è da escludere invece un’approvazione parziale dell’intesa.
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