Aziende e regioni
Autonomie regionali, Cartabellotta (Fondazione Gimbe): «Maneggiare con cura. Riequilibrio possibile nel Patto della salute».
di Barbara Gobbi
24 Esclusivo per Sanità24
«Come principio generale il regionalismo differenziato non è sbagliato. Ma bisogna considerare tre aspetti: a chi viene concesso, il rischio che alcune proposte creino diseguaglianze importanti e soprattutto l’esigenza che, parallelamente alla concessione dell’autonomia a Regioni che pure lo meritano, lo Stato potenzi le sue capacità di indirizzo e verifica». Nino Cartabellotta, presidente della Fondazione Gimbe che ha realizzato una survey sui contenuti per la sanità delle proposte autonomistiche di Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna, spiega il perché del monito appena lanciato sui rischi che «la frattura dello Stato sociale, in particolare in Sanità, diventi ancora maggiore».
La formazione e le assunzioni del personale, la gestione dei farmaci e delle aziende del Ssn sono al centro delle istanze regionaliste e, non a caso, sono anche fronti su cui la governance nazionale si è “impallata”. A suo avviso è possibile che il riequilibrio da lei auspicato passi dal nuovo Patto della salute?
Verosimilmente quello che sarà scritto nel prossimo Patto della salute rappresenterà un compromesso con le istanze delle Regioni autonomiste. È probabile che, a fronte del via libera a Veneto, Emilia Romagna e Lombardia si chieda - a loro e alle Regioni benchmark - di affiancare le amministrazioni rimaste indietro. È la logica del federalismo solidale, già proposta in passato, e potrebbe essere la strada per evitare la disintegrazione del solidarismo. Ma va detto che ad oggi questa ipotesi non la troviamo scritta in nessun documento, né è inclusa nell’accordo sul regionalismo differenziato.
Al di là delle probabili difficoltà, cosa pensa dell’ipotesi di riequilibrare l’autonomia con meccanismi solidaristici tra Regioni a diverse velocità?
Dal punto di vista generale sono favorevole ma lo ritengo poco attuabile: fino a oggi tutti i tentativi di attuare il federalismo solidale sono falliti, un po’ per ragioni politiche - faccio fatica a pensare che una Regione di sinistra vada ad affiancare un’amministrazione di destra e viceversa - un po’ anche perché le Regioni hanno impostato una logica di competizione. Un affiancamento che potenziasse una Regione del Sud ridurrenne in modo sostanzioso quella mobilità sanitaria che va a vantaggio della Regione affiancante.
Le Regioni “autonomiste” hanno i conti in ordine ed erogano buoni o ottimi Livelli essenziali di assistenza. Non è comprensibile che decidano di far da sé su temi in cui il Ssn è da anni carente?
Ma serve più Stato: la chiave del regionalismo differenziato è l’aumento delle capacità di indirizzo e verifica dello Stato sulle Regioni. Se il virus del regionalismo differenziato si allarga, il sistema non sarà più governabile.
E allora quali ricette andrebbero utilizzate?
Intanto, il riparto del Fsn va agganciato all’adempimento di specifici indicatori, aggiornando e rendendo molto più dettagliata la griglia Lea, in linea del resto con quanto prevede il nuovo sistema di garanzia, che la Conferenza delle Regioni non ha ancora approvato. Ancora: sempre nel riparto del Fsn andrebbe definita una quota fissa per il personale, una volta che ne siano stati definiti i parametri di riferimento. Gli strumenti tecnici non mancano, ma serve volontà politica. In sistemi esteri analoghi al nostro, le Regioni hanno magari autonomia maggiore ma lo Stato ha maggiore capacità di indirizzo e di verifica: linee guida, standard e Hta sono nazionali. Gli strumenti di governance vengono definiti in maniera condivisa.
Quali conseguenze per chi non si allinea?
Se non eroghi gli screening, l’anno dopo non ti do gli stessi soldi: questa dovrebbe essere la logica. In Italia si sono fatti “scappare i buoi”, salvo poi commissariare le Regioni entrate in piano di rientro. La parola chiave dev’essere maggiore capacità d’indirizzo e verifica, e ci si arriva anche attraverso una riforma degli enti vigilati. Oggi discutiamo di maggiore autonomia alle Regioni ma nessuno discute di maggiori poteri allo Stato. Che non sono alternativi: servono a migliorare i servizi al cittadino usando meglio il denaro pubblico e a facilitare l’erogazione dei Lea.
Quali sono a suo avviso le materie più “rischiose” inserite nelle istanze autonomistiche?
Sicuramente quelle relative al personale: non la rimozione dei vincoli di spesa, cioè il tetto fermo al 2004 meno l’1,4%, indispensabile per andare a sanare specifiche carenze. Quanto invece chiede il Veneto, cioè maggiore autonomia in materia di gestione del personale inclusa la regolamentazione dell’attività libero-professionale ma anche la facoltà di prevedere in sede di contrattazione integrativa collettiva per i dipendenti incentivi e misure di sostegno, sono novità che i sindacati a mio avviso non accetteranno mai. Poi c’è il problema delle valutazioni scientifiche sull’equivalenza terapeutica, che comporterebbe lo spostamento della governance del farmaco a livello regionale nei casi in cui l’Aifa non si pronunci entro 180 giorni. Un elemento importante di disuguaglianza in termini di accesso.
E sul fronte compartecipazione?
Qui c’è un evidente contrasto con il Patto della salute, che dovrebbe puntare a un unico sistema di compartecipazione nazionale, mentre le Regioni chiedono autonomia nella gestione dei ticket. Su sistema tariffario, rimborso e remunerazione, rischiamo di avere dei nomenclatori tariffari diversi da Regione a Regione. Questi sono elementi che preoccupano in termini di governance complessiva. Più in generale, i risvolti delle proposte autonomistiche al momento non sono immaginabili e anche per questo abbiamo lanciato la survey, in seguito alla quale la Fondazione Gimbe pubblicherà uno studio.
Nel frattempo altre sette Regioni - Campania, Lazio, Liguria, Marche, Piemonte, Toscana e Umbria - hanno dato ai loro presidenti mandato di avviare il negoziato...
L’iter politico non è così semplice, una volta che il negoziato è concluso va fatto il Ddl in Consiglio dei ministri e e poi dev’essere approvato in Parlamento con maggioranza assoluta.
Si direbbe che non sia soltanto un problema di frattura Nord-Sud ma che tante spinte regionaliste siano la prova che questo Paese non si tiene insieme...
Se così è, si lavori tutti a un progetto politico su modello Usa, dove ognuno gestisce la propria autonomia e i propri servizi. Altrimenti si va verso un sistema ancora più ibrido di quello attuale, aggiungendo alle cinque realtà a statuto speciale le tre con regionalismo differenziato. In quest’ottica lo Stato s’indebolisce sempre più: con quale modalità i diritti civili possono essere allineati in tutte le Regioni? Tanto varrebbe dar vita a una confederazioni di stati, se c’è questo tipo di ambizione... Ma è chiaro che a guardare i Pil ci si chiede come alcune Regioni possano farcela, a gestire in autonomia i servizi essenziali per i cittadini. La valutazione che facciamo quindi è: regionalismo differenziato sì, ma attenzione a quali Regioni lo diamo e su quali autonomie ci accordiamo.
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